Fanfiction: Ritorni

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Elena_R
view post Posted on 10/1/2005, 22:05 by: Elena_R




Buon anno a tutti! Grazie ai soliti noti che hanno commentato o che mi hanno mandato degli mp: siete grandi!


Capitolo diciotto

-e così questa è la fine.
Alzò lo sguardo dall’ultimo maglione che stava infilando in valigia e lo posò su Kate. Era la prima frase che gli rivolgeva da quando era entrata in casa sua; avendo le chiavi dell’appartamento non aveva nemmeno avuto la premura di bussare, ma si era accomodata tranquillamente e seduta sul suo letto guardandolo muoversi da una parte all’altra della stanza mentre preparava i bagagli. Lui non aveva aperto bocca nemmeno per salutarla.
-Lo sapevamo entrambi fin dall’inizio. Te ne avevo parlato.
Non voleva suonare acido, ma lei non si era resa conto che la loro fine era stata effettivamente scritta molto, molto tempo prima?
-sì, ma… speravo che avresti cambiato idea.
La fissò meglio, incredulo. Poteva davvero pensare che avrebbe rinunciato all’opportunità della sua vita per lei o per qualcun’altra? Tornare a New York, avere un’attività che poteva definire ‘sua’ valevano più di ogni altra cosa e lei, una delle persone che meglio avrebbe dovuto conoscerlo, pensava che avrebbe cambiato idea? Se fosse stata sua moglie forse…
-o per lo meno che mi chiedessi di venire con te- continuò.
Si chiese perché per tutti quei mesi non aveva detto nulla e aveva invece deciso di cadere dalle nuvole ora che mancavano ventiquattro ore alla partenza. Che cosa stava cercando di dirgli? Che voleva un rapporto stabile, un anello di fidanzamento… cosa?non aveva più fiducia in Kate da un bel pezzo e se era tornato insieme a lei era per due principali motivi: l’abitudine e la voglia di distrarsi. Ormai pensava che l’avesse capito anche lei. Invece aveva commesso un errore, perché forse l’aveva illusa facendole credere che quello che aveva davanti era il vecchio ed innamorato Jess.
-e se io ti avessi chiesto di venire a New York- disse dal nulla –tu l’avresti fatto?
Le risposte potevano essere due: una significante che lo amava ed era disposta a tutto; l’altra che forse stava sopravvalutando la situazione.
-forse.
Una terza possibilità? Non era prevista.
-Forse?
-forse sì. Ma a questo punto è inutile pensarci, perché tu non hai nemmeno preso in considerazione quest’opzione.
-mi dispiace –le confessò incerto su cosa doversi scusare in realtà. E lei doveva avere lo stesso sentore, perché la vide sorridere amaramente e alzarsi dal materasso.
-certo- gli rispose poco convinta –ma torni a casa, a New York. Sarai vicino a tua madre, tuo zio…- elencò tralasciando il nome di Rory che invece rimbombava nella sua testa da settimane- è quello che hai sempre voluto, no?
Asserì con un cenno del capo quasi inavvertibile per un disattento osservatore; -verrai in aeroporto domani?
-no. Non mi piacciono i saluti. Preferisco farlo qui, è meno strappalacrime e più facile che vederti sparire dietro il gate.
-ok.
-vorrei che tu sapessi una cosa- aggiunse la ragazza eretta in tutta la sua altezza con uno sforzo sovrumano. Avrebbe voluto far scendere le lacrime che aveva dietro gli occhi e che cominciavano ad appannarle la vista, ma non voleva che la vedesse piangere. Dopo tutto quello che era successo capiva che era ingiusto e, ai suoi occhi, ipocrita. La colpa era solo sua perché si era lasciata sfuggire la persona migliore del mondo e si era accorta troppo tardi del suo errore; -mi dispiace per quello che ho fatto la primavera scorsa, ma tengo veramente tanto a te e, anche se è stupido dirlo ora, ti amo. So che per te non è così, non più almeno, e posso biasimare solo me stessa. Immagino di doverti fare gli auguri, quindi… buona fortuna.
Jess non fece in tempo a dire nulla, perché pronunciata l’ultima parola aveva girato i tacchi e se n’era andata velocemente. Guardò le sue spalle sparire dietro la porta e sentì l’uscio chiudersi. Respirò a fondo e continuò a fare le valige.


Gli scatoloni imballati erano impilati gli uni sopra gli altri e formavano alte torri marroni nelle stanze ormai svuotate dei loro elementi. Lily li guardava sentendo crescere sempre più la tristezza e la malinconia: i mobili avevano le ante aperte e all’interno c’era il nulla, la televisione era sparita da giorni, probabilmente si trovava già a New York, insieme ad altre cose di cui Luke e Lorelai si erano presi cura, e la libreria era desolata. Anche quando aveva lasciato casa loro per la prima volta aveva provato un grande senso di vuoto, ma all’epoca sapeva dove trovare Jess e sapeva che poteva andare da lui in ogni momento. Ora ci sarebbero voluti un aereo e ore di volo per raggiungerlo.
Era arrivata da pochi minuti e lo aveva visto trafficare con le ultime cose. Subito non si era accorto di lei, perso com’era a fissare una foto di Kate; forse pensava a lei e a quanto gli sarebbe mancata. Forse pensava a lei e a quanto fosse meraviglioso non rivederla mai più. Lily sperava per la seconda.
-scricciolo? Dormi in piedi?- scherzò Jess vedendola immobile davanti alla porta con lo sguardo perso.
-no, pensavo.
-huh. A quel ragazzo di cui parlavi con Tammy e del quale non mi hai ancora detto nulla?- le chiese con fare indagatorio e faticò a reprimere un sorriso vedendola sbiancare.
-e tu che ne sai?!
-tua madre ha la lingua lunga: vi ha sentite parlare e a quest’ora tutta Venice sa che hai una cotta per un tuo compagno di scuola- le spiegò –e comunque: quante volete devo dirti che per avere un fidanzato devono passare almeno altri vent’anni?
-mi sembri Jimmy quando fai così.
-beh, per una volta io e lui siamo d’accordo.
Lily si mise a sedere sul pavimento e cercò le parole più adatte per dirgli ciò che provava senza dover scoppiare in lacrime; -non pensavo a quello. Guardavo la casa e mi sono resa conto che non potrò più vederti o venire a trovarti quando voglio. Diciamoci la verità: tu al telefono non sei il massimo. Come si può fare conversazione con uno che risponde a malapena con dei “sì”, “no”, “mm”, “huh”…? Non è affatto facile!- disse sorridendo e vedendolo sogghignare a sua volta.
-vuol dire che mi studierò tutte le altre parole del dizionario e te le ripeterò per telefono.
-grazie. Tammy dice che sarà tutto diverso adesso che te ne andrai. È così cotta di te!
-davvero?- le chiese Jess facendo una faccia sorpresa, come se non fosse consapevole dell’attenzione che l’amica di sua sorella gli rivolgeva ogni volta che entrava in una stanza in cui c’era anche lei –non me n’ero mai accorto. Peccato che sia così piccola… dovrei aspettare almeno una ventina d’anni per chiederle un appuntamento.
-oh, se glielo chiedessi adesso non rifiuterebbe.
-e io finirei in prigione. No, grazie. Tra un paio di decadi ci penserò.
-sono sicura che ti aspetterà. È molto innamorata.
-sì?
-sì. È fastidioso sentirla parlare di te. Non fa che dire: “che bello Jess!”, “com’è intelligente Jess!” “quanto è affascinante Jess!”, “come si veste bene!”, “che capelli!”, “che figo!”- urlò platealmente.
-“Figo”?- ripeté Jess piegandosi in due per l’interpretazione di Lily: quella ragazzina avrebbe potuto fare l’attrice drammatica.
-una vera tortura. Che ci trova in te?sei… mio fratello!- disse schifata e come se l’appellativo fosse una chiara spiegazione.
-non mi sembra un complimento.
-sai cosa voglio dire.
-e sai anche come cambiare discorso- la riprese –chi è quel ragazzo che ti piace?
-Dave? È nella mia classe di disegno. È il più bravo di tutti!- disse con entusiasmo, arrossendo un po’ per il pensiero di Dave e un po’ perché era imbarazzante quello slancio passionale davanti a suo fratello.
-un artista, eh? Non mi piacciono gli artisti.
-tu sei un artista! Scrivi, e gli scrittori sono artisti.
Sobbalzò sentendo quelle parole uscire dalla sua bocca. Non era ancora abituato all’idea che la sua famiglia conoscesse la sua seconda attività. Ora anche Jimmy, Sasha e Lily sapevano tutto e sembrava che quel segreto, fortunatamente, non avesse ancora toccato le orecchie di nessun altro.
-appunto: se questo Dave è come tuo fratello pensa che schifo!
-piantala Jess!- piagnucolò togliendosi una scarpa e tirandola nella sua direzione, mentre lui si scansava agilmente e la calzatura sbatteva contro la parete lasciando un segno grigio sull’intonaco immacolato.
-cos’è questa confusione? Non riuscite proprio a non litigare, eh?- chiese Sasha entrando in casa seguita a ruota dal compagno.
-le dicevo di togliersi dalla testa quel Dave, ma non vuole darmi retta- spiegò Jess lanciando a Cenerentola la scarpetta da ginnastica tutt’altro che principesca.
-ascoltalo, Lily. Lui è saggio e sa come va il mondo.
-sì e “lui”- disse Jess enfatizzando la parola indicandosi con l’indice puntato verso il petto –è anche forte: se quel ragazzino brufoloso si avvicina a te gli spezzo le dita, così la pianta anche di disegnare.
-idiota! Prima di tutto non è affatto brufoloso e poi non lo faresti mai
-no?-le chiese con aria di sfida contraccambiata dai suoi occhi che emanavano fuoco da sotto le lenti degli occhiali.
-No. Non puoi controllarmi.
-lo farà Jimmy, non preoccuparti- disse con la stessa soddisfazione che doveva aver provato Luke quando gli aveva fatto la ramanzina sulla sua relazione con Rory appena dopo essersi messi insieme e su come Lorelai li avrebbe controllati a casa sua, Luke quando erano nel locale e Taylor quando erano fuori.
-ora smettetela- s’intromise la madre della ragazzina –state ingigantendo una cosa innocente.
-innocente?!- gridò Lily indignata, perché la trattava ancora come una bambina nonostante avesse già tredici anni.
-Innocente?- chiese a sua volta Jess –io alla sua età ero tutt’altro che innocente.
-fortunatamente non sono tutti come te. E comunque il taxi sta aspettando. Sei pronto?
-sì, ho messo via tutto.
-sicuro che non vuoi che ti accompagniamo?- gli chiese suo padre.
-sì, io e i saluti… non andiamo d’accordo.
Gli sembrò che Jimmy capisse e questo pensiero lo rincuorò: non voleva sembrare un insensibile e non voleva che pensassero che non vedeva l’ora di non averli più davanti. Non era così.
Si lasciò abbracciare e sbaciucchiare da Sasha ascoltando le sue mille raccomandazioni, riflesso incondizionato di una madre; anche suo padre, al contrario d’ogni previsione, lo circondò protettivamente e gli dispiacque vederlo triste. Quando era apparso a Stars Hollow cinque anni prima non avrebbe mai immaginato che l’uomo che aveva abbandonato lui e sua madre potesse volergli bene: era uno strano concetto.
L’espressione da cagnolino bastonato di Lily gli strinse lo stomaco e allontanarsi da lei fu la cosa più difficile. Ma quel taxi giallo, metafora della sua nuova vita, lo stava aspettando ed era arrivato il momento di tornare a casa.
Quella vera, stavolta.

L’atmosfera intorno a lui era quasi surreale e non ricordava di essersi mai sentito in quel modo in un aeroporto.
La luce chiara dei raggi solari che filtravano attraverso le vetrate trasparenti una volta all’interno era come se si trasformasse in un alone bianco che, sfibrato, danzava tra le scomode sedie occupate da viaggiatori annoiati e stanchi nei loro completi eleganti, li circondava e li illuminava magicamente facendoli sembrare dei santi o delle allucinazioni. Dalla sua poltroncina di plastica si strofinò gli occhi chiedendosi se nel caffè che aveva preso poco prima al bar qualcuno aveva osato sciogliere degli stupefacenti. Il suo volo sarebbe decollato in meno di un’ora ed entro breve avrebbe potuto imbarcarsi. Si guardò intorno e per la prima volta, oltre ai santoni annoiati, notò la “vita” dell’aeroporto: centinaia di persone che camminavano –anzi correvano- da una parte all’altra degli enormi spazi zigzagando tra altri passeggeri e bagagli ingombranti, concentrati sul percorso e sull’equilibrio precario da mantenere per non stamparsi sul pavimento- chiaro- schiacciati da valige e borsoni che li facevano barcollare ad ogni mossa azzardata e perdita del baricentro.
Davanti ad una delle vetrate alcuni bambini sgranavano gli occhi restando a bocca aperta davanti gli aerei che si assestavano sulle piste mentre altri, sbuffando, si guardavano le scarpe, probabilmente impauriti da quei giganti che li avrebbero portati in cielo. Le signore al loro fianco leggevano giornaletti scandalistici o di moda comprati poco prima all’edicola, mentre i loro possibili mariti ridevano sguaiatamente e gesticolavano con animosità simulando delle battute del baseball.
Un paio di coppiette se ne stavano abbracciate negli angoli più appartati dandosi l’ultimo saluto prima di separarsi e altri impegnati businessmen parlavano in ormai supertecnologici cellulari bevendo il canonico bicchierone di caffè nero e amaro e trascinando la ventiquattrore pronta in ogni momento della loro vita; camminavano con sicurezza e determinazione sapendo già che la direzione da prendere era la stessa della volta prima e di quella prima ancora: era gente che “viveva” negli aeroporti, conosceva gli orari dei charter a memoria e confidava alle hostess gli impegni della settimana mentre loro gli porgevano “il solito”.
Un improvviso rumore proveniente dal suo fianco lo fece sobbalzare; si voltò e vide che il ciccione di mezza età, calvo e sudato che gli sedeva vicino si era addormentato leggendo il giornale e russava rumorosamente. Sorrise e annotò mentalmente di prendere un altro caffè una volta sull’aereo: rischiare di addormentarsi e fare una figura come quella di quell’uomo non rientrava nei suoi piani.
Una voce femminile annunciò che i passeggeri del volo per il J.F.K. Airport dovevano recarsi al cancello d’imbarco. Si alzò meccanicamente e afferrò il suo portatile: era pronto a lasciare Los Angeles. Con un sospiro diede un ultimo sguardo a quel mondo sospeso tra arrivi, attese e partenze, e camminò sulla scia di luce prodotta dalle finestre e che gli indicava la strada fino al cancello d’imbarco per New York.

La macchina si fermò con una frenata che per poco non gli fece battere la testa contro il sedile anteriore. Nel suo accento spagnolo il taxista gli chiese una somma spropositata per il viaggio e Jess fu tentato di dargli la metà del prezzo che aveva appena pronunciato con il sorriso sornione di uno che sa di fregarti e sa che non contesterai. Era passata poco più di un’ora da quando aveva messo piede sulla terra di New York e già sentiva che riabituarsi sarebbe stato difficile. Invece gli ordinò di scaricare le valige e solo dopo che Pablo o Miguel o come si chiamava ebbe adempiuto il suo dovere, bestemmiando e mandandolo a quel paese nella sua lingua madre –che lui conosceva quasi perfettamente-, mise mano al portafoglio e gli lasciò tutti quei dollari assolutamente non meritati. In un lampo Garcìa salì sul suo taxi e sgommò verso il centro alla ricerca di un altro pollo da spennare.
All’ingresso un uomo vestito di tutto punto con un completo giacca e cravatta grigio fumo di Londra gli sorrise quasi accecandolo con i suoi denti splendenti e Jess capì che si trattava dell’agente immobiliare che gli aveva trovato l’appartamento.
Sorride ai miei soldi, pensò avvicinandosi e presentandosi all’ennesimo avvoltoio. Non smise un attimo di parlare e fu tentato di spingerlo nella tromba dell’ascensore o giù dalle scale, ma decise di aspettare di avere le chiavi dell’appartamento in mano. Continuando a descrivere nei dettagli la bellezza dell’attico, la simpatia dei vicini, il prestigio dell’agenzia immobiliare e la fortuna che aveva avuto nel trovare quella grande occasione, finalmente arrivarono davanti alla porta di quella che sarebbe stata la sua nuova casa. Una volta dentro si guardò intorno e dovette ammettere che non era niente male. Nel frattempo Parker aveva continuato a parlare con euforia e il brusio che produceva la sua voce cominciava a diventare fastidioso: non gli era sembrato così irritante al telefono. Lo congedò assicurando che entro un paio di giorni avrebbe versato il resto della somma pattuita per l’acquisto e con questo, camminando due metri da terra e dopo mille inchini, il manichino uscì.
Si chiuse la porta alle spalle e diede un’altra occhiata all’appartamento: era ammobiliato con gusto e in modo semplice ed essenziale, esattamente come piaceva a lui. Camminò fino alla porta a vetri ed uscì sul bancone, mentre con la mano cercava il cellulare in una delle sue tasche. Il sole stava calando e tutta la città era sovrastata da un cielo lievemente arancione che si accostava al grigio dello smog.
Però gli piaceva.
Compose il numero senza nemmeno guardare la tastiera e ascoltò il tu-tu che a stento si sentiva, perché sovrastato dal rumore dei clacson provenienti dalla strada di sotto. Ci volle un minuto prima che qualcuno rispondesse, poi la sua voce bassa e assonnata arrivò alle sue orecchie.
-Jess, stavo dormendo. Non hai niente di meglio da fare che privarmi del mio prezioso sonno?
-intendi oltre che guardare New York dal venticinquesimo piano del mio nuovo appartamento?-chiese alzando la voce per farsi sentire –no, non ho niente da fare.
-New York?-sentì dire dall’altra parte con un pizzico d’eccitazione –sei a casa!
-sono a casa.
-bentornato!
Sorrise alla familiarità di quelle parole e l’ascoltò mentre gli raccontava tutto quello che Lorelai le aveva detto dell’appartamento quando lei e Luke erano passati per mettere in ordine alcune cose, il suo bisogno di dormire ormai dimenticato.


Si avvicina il momento che tutti state aspettando... dovrete pazientare ancora Moooolto poco!
 
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27 replies since 9/5/2004, 16:23   9224 views
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