Devo sottolineare il fatto
che tutto quello che è in corsivo sono ricordi del passato? Nah, siete
tutti troppo intelligenti per non arrivarci da soli…
Capitolo 13
Il sole era calato da alcuni
minuti e tutt’intorno c’era solo del rosso: il cielo all’orizzonte
sembrava bruciare, mentre l’acqua dell’oceano era una distesa infinita di
fluido purpureo che avanzava sulla sabbia lucente della spiaggia; in lontananza
alcuni impavidi continuavano ad usare le tavole da wind surf spinte lentamente
dal lieve vento che soffiava da sud. Il chiosco di Jimmy era quasi del tutto
invisibile, nascosto dietro decine di donne e uomini dell’ufficio, amici di
suo padre e Sasha, colleghi dell’università, amici degli amici, conoscenti
degli amici… se fosse stato più popolare nella comunità di Los Angeles cosa
sarebbe successo? Quella era una vera e propria invasione e il desiderio di
diventare invisibile si faceva sempre più ingente. Destreggiandosi come un
abile atleta tra tutte quelle persone, metà delle quali non aveva mai visto in
vita sua, si ripeté che il prossimo a dire ‘congratulazioni’ avrebbe
ricevuto come ringraziamento un pugno dritto sui denti.
Al di là d’ogni dubbio la
laurea era un traguardo importante, ma le pubbliche relazioni non erano mai
state il suo forte e, onestamente, non capiva il motivo di organizzare un
ricevimento per festeggiare. Jimmy aveva finito col prendere sul serio il ruolo
di padre e quell’accozzaglia di ex hippy e ragazzi sorridenti con un mojito in
mano n’erano la prova. Ricevere quel tipo d’attenzioni lo imbarazzava.
Poteva attirare gli sguardi della gente facendo stupidi scherzi o battute
sarcastiche, o quelli delle ragazze semplicemente attraversando diagonalmente
una stanza; me essere sotto i riflettori perché finalmente era riuscito a
laurearsi, era un altro discorso. Nessuno si era mai detto fiero di lui: Jimmy
non c’era mai stato, Liz aveva ignorato puntualmente i buoni voti che aveva
portato a casa durante le elementari, così aveva deciso che non valeva la pena
impegnarsi. Avrebbe dovuto farlo per se stesso, ma all’epoca non poteva
fregargliene di meno…
Luke avrebbe voluto che
migliorasse e a Rory interessava tutto quello che faceva, ma non era stato
abbastanza. Se avessero potuto vederlo quel pomeriggio mentre riceveva il suo
“pezzo di carta” sarebbero stati felici per lui, n’era certo. Aveva
parlato con suo zio al telefono e aveva sentito un certo orgoglio nella sua
voce; se non l’avesse conosciuto bene avrebbe potuto giurare che stava per
piangere. Bravo, Jess aveva detto e quelle due sole parole gli avevano
confermato che ne era valsa la pena.
Passando tra due signori
vestiti di lino bianco, con i capelli lunghi, delle collane colorate al collo e
quella che gli sembrava chiaramente una canna tra le dita che faceva da spola
tra loro mani, si chiese se quella era la realtà o stava sognando.
Allontanandosi dalle risate e dalle chiacchiere dei presenti alla sua
festa di laurea, si mise a sedere a pochi metri dal bagnasciuga. Appoggiandosi
una sigaretta tra le labbra si congratulò silenziosamente con se stesso: in
soli quattro anni era riuscito a diplomarsi e laurearsi, una cosa non da tutti.
Aveva compiuto molti sacrifici, passato notti in bianco per studiare in
compagnia della fioca luce di una vecchia abat-jour, litri di caffè molto forte
e il ronzio continuo delle lucciole e degli insetti notturni; venerdì e sabati
sera tra le pareti della sua stanza al campus, mentre i suoi colleghi oltre la
porta bevevano e ballavano con le ragazze. Era andato a lezione ogni mattina e
in alcuni pomeriggi, lavorato fino al tramonto quando non era a Berkley,
studiato di sera. Aveva avuto costanza e forza di volontà per non mollare; ciò
che più lo aveva sostenuto era stato il pensiero di Luke: aveva immaginato
mille volte il momento in cui gli avrebbe dimostrato che i suoi discorsi non si
erano sempre persi nel vuoto, che era stato importante, che lo aveva aiutato,
che era merito suo se aveva portato a termine gli studi. Azioni e non parole,
perché i Mariano, come i Danes, non perdono tempo in chiacchiere, ma usano i
fatti.
-Hey, Jess!-lo interruppe un
ragazzo con due bottiglie di birra tra le mani.
- Sean- lo salutò gettando
il mozzicone di sigaretta nella sabbia e prendendo la bionda che il capo gli
offriva. Pochi mesi prima aveva osato sfidarlo, mettere in discussione la sua
autorità e, oltre alla stima e all’amicizia, ci aveva guadagnato una
promozione.
-che ci fai qui? Dovresti
essere in mezzo a quella bolgia, sorridente e pronto a ricevere tutti i
complimenti degli amici dei tuoi.
-Sash non è mia madre- gli
ricordò. Liz lo era, teoricamente.
-lo so, ma è come se lo
fosse. O almeno così dice Ally.
-Ally, Ally, Ally… ma
quando te la sposi?-scherzò ricevendo in risposta solo un sorriso; -ti
consiglio di chiederglielo, prima che trovi casualmente l’anello che hai
nascosto nel comodino sotto i libri.
-non è più lì.
-no?
-no.Ieri sera l’ho messo
nel cruscotto della mia auto e la stavo accompagnando a casa quando un
poliziotto mi ha fermato per eccesso di velocità. Le ho distrattamente chiesto
di prendermi il libretto dal cruscotto e lei ha trovato l’anello.
-scherzi?
-affatto. Mi ha guardato con
un’aria del tipo “che diavolo ci fa questo coso qui?” e io non avevo idea
di cosa fare: c’era un poliziotto smanioso di multarmi alla mia sinistra e la
mia ragazza con un anello di brillanti tra le mani a destra…
-e allora?-chiese bevendo un
sorso di birra senza staccagli gli occhi di dosso. Era troppo curioso di sapere
come si era districato in quella storia.
-ho dato il libretto al
poliziotto, sono sceso dalla macchina, ho aperto la portiera del lato di Ally,
mi sono inginocchiato e le ho chiesto di sposarmi. Una dichiarazione in piena
regola.
A Jess quasi andò di
traverso la birra quando sentì le sue parole: -cosa? Le hai chiesto di sposarti
mentre ti facevano una multa?
-a dir il vero speravo che
vedendo quella scena il mio amico in divisa si commuovesse e chiudesse un
occhio.
-quindi?
-niente da fare: 150$ di
contravvenzione.
-no, intendo Ally.
-ah! Beh, sono esattamente
20 ore e 39 minuti che l’anello è al suo dito.
-wow. Congratulazioni.
-grazie.
A dire la verità non si
aspettava che Sean le avesse veramente chiesto di sposarlo; lui voleva solo
scherzare e prenderlo un po’ in giro per quell’affetto a volte esagerato nei
confronti di una ragazza, ma il suo capo lo aveva sorpreso e aveva agito; -è
strano pensare a te come ad un uomo sposato- gli confessò. Sean era un
cacciatore sempre in cerca di belle ragazze con cui uscire, o almeno lo era
stato nell’era pre-Ally.
-penso che ognuno di noi sia
destinato ad una di loro: passiamo la nostra giovinezza a cercarla e quando la
troviamo è naturale sentire il bisogno di volerla sempre con noi. La legge
della natura è implacabile, Jess. Tu mi conosci, sai che non sono il tipo
romantico che tutte le ragazze sognano, ma con lei è diverso: non ho bisogno di
sforzarmi per esserlo, perché lei mi capisce semplicemente guardandomi negli
occhi. E io capisco lei…- disse con uno sguardo però pensieroso –a volte.
-sei cotto- rise Jess –ti
stai legando per sempre ad una donna: sei sicuro d’essere pronto ad
abbandonare l’universo femminile dei locali?
-la mia ricerca è finita…
ora è tutto nelle tue mani. Se qualche mese fa qualcuno mi avesse detto che
entro la fine dell’anno mi sarei sposato, gli avrei dato del folle. Ma il
folle sono io. Non voglio più aspettare; se fosse per me la sposerei anche
subito, qui. E sai qual è la cosa più incredibile? Per lei è lo stesso! Ti
auguro di trovare la tua Ally molto presto, Jess.
Rimasero seduti in silenzio
per un po’ e lui ripensò alle parole di Sean, al furore che lo prendeva ogni
volta che nominava la sua Ally, all’impazienza di essere con lei.
All’orizzonte i due surfisti si erano arresi e ora l’acqua era libera da
ogni presenza umana.
-eccovi- disse una voce
femminile alle loro spalle interrompendo la quiete di quel momento.
-hey!- disse il compagno
salutando la sua fidanzata accompagnata da un’altra ragazza.
-cosa fate qui?se non
l’avete notato la festa è laggiù e il festeggiato dovrebbe girare tra la
gente sorridente ed orgoglioso raccontando aneddoti dei suoi anni al college.
Peccato che al nostro eroe non piacciano questo tipo di cose…
-tu sì che mi conosci -
rispose Jess spostando lo sguardo sulla ragazza che non conosceva.
-ah- intervenne Ally, alla
quale questo genere d’occhiate non sfuggiva mai: da quando l’aveva
incontrata la prima volta gli aveva presentato decine di ragazze, con alcune
delle quali aveva anche fatto coppia per un po’ di tempo; -Jess, questa è la
mia migliore amica, Kate. Kate, lui è Jess: il neo-laureato.
-ciao- disse la ragazza
stringendogli la mano; -Ally e Sean parlano spesso di te.
-se fossi in te non mi
fiderei di tutto ciò che dicono. Soprattutto di quello che dice Sean: è
inattendibile- disse col fare misterioso e seduttore di quando incontrava una
nuova ‘preda’.
-ah, sì? Di solito sono
cose carine, ma se mi dici così…
-cose carine? Allora forse
dovrei concedergli il beneficio del dubbio.
-o forse potrei giudicare
personalmente.
-mi sembra la soluzione
migliore- rispose Jess notando che quella era una ragazza intraprendente.
-Jess!-gridò Lily attirando
la soluzione dei quattro- devi venire qui, l’ha detto la mamma!
Sospirò e lanciò
un’occhiata sprezzante alla folla che aspettava solo lui.
-devi andare- disse Kate
notando la sua riluttanza nel muovere il primo passo.
-purtroppo. Cosa fai dopo la
festa?
-qualcosa mi dice che hai
una proposta…
-potrei darti l’opportunità
di conoscermi in modo che tu possa…
-va bene- lo interruppe; -la
mia macchina è parcheggiata al di là della strada, è una spider. Ti aspetto lì
alle undici?
-va bene. E’ stato un
piacere, Kate.
-anche per me. Ah,
congratulazioni.
Jess ricordò il pensiero
che aveva avuto pochi minuti prima: dare un pugno all’ennesimo che si sarebbe
congratulato. Diede un’altra occhiata alla ragazza che gli stava davanti: -le
donne non si toccano neanche con un fiore…-si disse. Poco male. Le avrebbe
dato qualcos’altro.
-la prima volta che ti ho
visto non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello l’idea che
fossi un intellettuale- disse Kate addentando l’ennesima fragola.
-uh. E cos’hai pensato?-
le chiese distrattamente; la sua attenzione era completamente riversata sulla
ragazza sdraiata sul suo divano intenta a mordere quei frutti rossi in un modo
così sensuale che ogni altra cosa passava in secondo piano. Parte dei suoi
capelli castani, lunghi e luminosi erano sparsi sul bracciolo su cui posava la
testa, parte oscillava nel vuoto a pochi centimetri dal pavimento e alcune
ciocche restavano sulle sue spalle e scendevano sulla sua camicia; Kate
aveva allacciato solo un paio di bottoni all’altezza del seno e, a causa della
sua posizione, i lembi scivolavano lungo i suoi fianchi lasciando scoperta la
pancia piatta e abbronzata dal sole della California. Jess fece scorrere una
mano sul suo ombelico e giocherellò col piercing azzurro che rifletteva la
luce. Oltre alla camicia e ad un paio di minimali slip, non indossava nulla e i
suoi occhi continuavano il loro viaggio lungo quelle gambe perfettamente lisce e
sinuose che percorrevano il divano nella sua lunghezza. Kate sembrava una Dea,
Venere: aveva un corpo perfettamente scolpito da poche ma costanti ore di
palestra, una grazia e una classe innate e, a completare il quadro della
perfezione, era una delle ragazze più intelligenti che aveva incontrato da
quando si era trasferito a Los Angeles. Si stava laureando in psicologia
infantile e aveva raggiunto il massimo dei voti in tutti gli esami che aveva
dato fino a quel momento.
-…avevi il fascino
dell’uomo che non deve chiedere mai.
-e “l’uomo che non deve
chiedere mai” è un analfabeta?-le chiese facendo scendere lentamente la mano
sulla coscia: un gesto che, sapeva, la faceva rabbrividire dal piacere.
-no… sa leggere…
benissimo- sussurrò con le palpebre chiuse sugli occhi verdi smeraldo. Jess
sorrise alla reazione che aveva provocato.
-Jess?
-che c’è?- chiese
prendendole la ciotola di fragole dalle mani appoggiandola sul tavolino lì
vicino, dove non correva il rischio di essere rovesciata; cambiando posizione si
stese su di lei e le baciò la zona sulla clavicola.
-tua sorella…lei…-
s’interruppe quando le labbra di Jess lisciarono la sua pelle e iniziarono a
giocare col lobo del suo orecchio.
-uh?
-Lily… mi… odia…
-no…-rispose continuando
la sua opera di seduzione mentre le mani della ragazza viaggiavano sulla sua
schiena.
-sì invece. Lei mi…
risponde sempre male e… mi saluta solo se costretta. Non le piaccio.
-a me sì- la baciò.
-ma io non sto parlando di
te.
Jess si fermò per un
istante e la guardò negli occhi: era deciso a chiudere quella conversazione al
più presto; -tu esci con me, non con la mia famiglia -Perché quelle parole gli
suonavano così familiari?-non pensare a Lily.
-quando esci con qualcuno
devi anche pensare alla sua famiglia, agli amici… è come un pacchetto: c’è
l’oggetto principale e tutti gli accessori e…
-IO sono il pacchetto, non
devi pensare a nient’altro.
-ok -rispose la ragazza
indecisa, ma pronta a lasciare da parte il discorso, mentre lo attirava a sé
facendo pressione con le mani sul suo collo.
-ok –disse a sua volta
felice di essere riuscito nel suo intento, anche se una strana sensazione
aleggiava intorno a lui: ricordava uno stupido cigno, la cena da Emily, un
litigio e un giro in barca con Luke.
-sai una cosa?- chiese Kate
interrompendo i suoi pensieri –mi è sempre piaciuto scartare i pacchetti! –
disse sfilandogli con destrezza la maglia e lasciandola cadere sul tavolino, di
fianco alle fragole, mentre la bocca di Jess era di nuovo sulla sua e le sue
mani avevano già trovato il modo di sbottonare i bottoni della sua camicia.
-mezz’ora di ritardo-
mormorò finendo di bere il suo secondo caffè, seduto ad un tavolino nel bar in
cui avevano appuntamento. Intorno a lui il locale era semideserto a causa di una
delle più emozionanti partite del Superbowl che si teneva quella sera. Jimmy e
Sasha lo avevano invitato a casa loro, ma sinceramente preferiva passare la
serata con la sua ragazza piuttosto che guardando una massa d’uomini sporchi e
sudati correre dietro una palla e pestarsi quasi a sangue per averla. O almeno
quello era il piano iniziale. Conosceva Kate e sapeva che era molto impegnata,
ma ultimamente si faceva attendere troppo; a che gioco stava giocando…? Si
guardò intorno per cercare il cameriere a cui chiedere qualcosa da mangiare,
quando il cellulare iniziò a suonare: -Hey!- rispose, riconoscendo il suo nome
sul display.
-Ciao Jess! Ti prego scusami
per il ritardo, ma c’è un incidente e non ho idea di quando riuscirò ad
uscire da quest’ingorgo.
-non importa, posso
aspettarti.
-potrei metterci
un’eternità e non mi va di saperti seduto in quel bar da solo. Va a casa mia
e aspettami lì, è meglio.
-non ho le chiavi.
-questo non ti ha mai
fermato prima. Potrei elencarti decine d’occasioni in cui sei sgattaiolato nel
mio appartamento con chissà quali trucchetti…
-sono i segreti del
mestiere…
-allora vai ad aspettarmi lì?
-ok. A dopo. Ma dovrai farti
perdonare…
-Ciao Jess!- chiuse la
ragazza, ridendo.
Rinunciando al proposito di
mettere qualcosa sotto i denti, si alzò e andò a pagare, poi uscì nell’aria
mite di quel febbraio. Kate abitava poco lontano da quel bar e Jess decise di
lasciare lì l’auto e fare due passi per le strade deserte che raramente aveva
visto a Los Angeles. Aveva un appartamento in un palazzo nella zona
residenziale; suo padre, il proprietario di un’industria informatica, le aveva
regalato quell’enorme casa e provvedeva alla maggior parte delle sue spese;
lei, dal canto suo, lavorava part-time in un asilo e il suo stipendio non le
avrebbe garantito la vita agiata a cui era abituata. Ma aveva grandi progetti e,
n’era certo, nel giro di pochi anni avrebbe iniziato a fare soldi a palate,
esattamente come il padre.
Quando arrivò lo stabile in
cui abitava Kate, la signora Zimmermann stava uscendo dal portone e,
conoscendolo, glielo lasciò aperto; Jess si trattenne con lei un paio di
minuti, rispondendo educatamente alle sue domande. Quell’anziana signora era
simpatica e arzilla e lo adorava: diceva che era un bravo ragazzo, che glielo
leggeva nello sguardo e che lei non sbagliava quasi mai. ‘quasi’ si era
ripetuto la prima volta che gli aveva detto cosa pensava di lui. A volte si
chiedeva se i suoi nonni erano stati come lei; capitava di starsene seduto sulla
spiaggia e vedeva spesso coppie di anziani che passeggiavano sulla riva proprio
come erano soliti fare i più giovani. Gli sarebbe piaciuto conoscere i suoi
nonni, vederli camminare mano nella mano o a braccetto, avrebbe voluto ascoltare
le storie di un tempo, dei tempi della guerra, del loro primo incontro; avrebbe
voluto sentirsi dire da loro che il vero amore esiste, rende felici e può
essere per sempre.
Prese l’ascensore fino al
quarto piano e si ritrovò davanti alla porta di mogano che conosceva fin troppo
bene; in un paio di secondi la violò e si fece avanti nell’ingresso
dirigendosi direttamente in cucina. Aprì il frigorifero per trovarvi solo dello
yogurt, alcune verdure, bibite dietetiche; beh, se Kate aveva quel fisico un
motivo c’era, no? Richiudendo l’anta notò che sul ripiano lì vicino
c’erano dei cracker.
-meglio che niente- disse
prendendo un paio di pacchetti e accasciandosi placidamente sul divano.
L’arredamento costoso e moderno comprato da papà lo guardava e controllava
che non facesse mosse sbagliate. Ignorando gli sguardi furtivi dello stereo
high-tech e di un vaso cinese, sfogliò alcune riviste scientifiche, fece un
po’ di zapping col telecomando e diede un’occhiata alla pila di cd
impolverati. Stava per mettere nel lettore l’ultimo dei Muse quando il
telefono iniziò a trillare; aspettò che la segreteria entrasse in funzione e
sorrise al messaggio lasciato da Kate mentre apriva la custodia. Una voce attirò
la sua attenzione e all’improvviso tutto il suo corpo s’irrigidì alle
parole del messaggio che stavano lasciando: -Hey bellezza! Sono io. Volevo solo
dirti che rifacendo il letto ho trovato il tuo orecchino sul materasso, quindi
non preoccuparti: non l’hai perso. Puoi passare a prenderlo quando vuoi, anche
domani se il tuo pseudo-ragazzo non ha altri programmi. So che n’abbiamo già
parlato, ma… vorrei che lo lasciassi presto. Questa situazione non è giusta
per nessuno, Kat, e lo sai anche tu. Devi dirgli tutto e farla finita.. Mi
manchi già.. se non avessi dovuto correre da lui ora saresti ancora qui, con
me. Ci sentiamo più tardi, ok? Ciao.
Con un gesto automatico
richiuse il cd nella sua custodia e lo appoggiò sullo scaffale da cui l’aveva
preso. Rimase immobile per alcuni secondi, con lo sguardo fisso sulla segreteria
dall’altra parte della stanza; sentiva l’impulso di prenderla e
scaraventarla contro la parete e poi saltarci sopra fino a ridurla un cumulo di
briciole di plastica. Doveva essere uno scherzo organizzato dalla sua ragazza
per vedere quanto teneva a lei, quanto era geloso. Se avesse controllato meglio
avrebbe trovato una telecamera nascosta, entro pochi minuti Kate sarebbe
rientrata col sorriso sulle labbra e l’avrebbe preso in giro fino allo
sfinimento per l’espressione che aveva mentre sentiva il messaggio. Gli
avrebbe fatto vedere la registrazione e insieme avrebbero riso, poi l’avrebbe
baciato e gli avrebbe detto che amava solo lui.
Eppure i conti iniziavano a
tornare: le mille cose da fare, i ritardi continui, l’essere spesso
irraggiungibile al telefono… avere due relazioni allo stesso tempo era
impegnativo e ancora di più lo era mentire. Lo sapeva bene.
Camminò verso il divano
senza riuscire a staccare gli occhi da quella maledetta segreteria che conteneva
la prova del suo tradimento. Rimase seduto tra i cuscini azzurri odoranti di
Chanel 5, il suo profumo preferito; non sapeva quanto tempo fosse realmente
passato, se pochi minuti o molto di più, quando sentì lo scatto della
serratura e balzò in piedi. Sorridente, Kate stava entrando sommersa di buste;
-allora ce l’hai fatta! Se un giorno avrò bisogno di uno scassinatore, so a
chi rivolgermi. Sei qui da molto?
-no- mentì, -sono appena
arrivato. Ho fatto un giro a piedi.
-infatti non ho visto la tua
macchina fuori- rispose avvicinandosi e baciandolo frettolosamente, per poi
dirigersi in cucina, dove voleva appoggiare le buste che aveva in mano.
-come sta tua madre?- le
chiese studiando con attenzione i cambiamenti d’espressione del suo viso,
senza però trovarne alcuno: era un’attrice dannatamente brava.
-bene, ti saluta. Ci ha
invitato a cena il prossimo sabato. Sai, sei il primo dei miei ragazzi a
piacerle: è sempre stata così ipercritica!- rispose abbandonando le scarpe
nell’ingresso e andando in salotto dove si trovava lui.
-nessuno è immune al mio
fascino. E le mamme non sono un’eccezione.
Lo disse con un tono quasi
soffocato, come se parlare fosse troppo difficile in quel momento, ma Kate non
se n’accorse e lui controllò il suo orecchio, mentre il messaggio di
quell’uomo si ripeteva nella sua testa; -ti manca un orecchino.
La ragazza si portò
entrambe le mani al lato del viso e sentì che uno dei lobi era senza il
perennemente presente brillante; -accidenti! Devo averlo perso in qualche
negozio. Sono quelli che mi hai regalato per il mio compleanno.
-lo so- rispose. Si sentiva
mancare. Un senso di nausea pervadeva ogni fibra del suo corpo e il cervello
aveva iniziato a ballare il tip-tap nel suo cranio.
-mi dispiace -la sentì
mormorare mentre lo stringeva in un abbraccio.
-anche a me- disse,
sforzandosi di fare lo stesso. Era stanco e non aveva voglia di discutere in
quel momento; gli serviva una soluzione, ma l’avrebbe cercata più tardi.
Era passato più di un mese
dalla sera in cui aveva sentito quel messaggio e da allora entrambi avevano
continuato quel sordido gioco di tradimenti. Per qualche tempo ci aveva creduto,
si era illuso che quella fosse la volta buona, che, per usare le parole di Sean,
Kate fosse la sua Ally.
Si sbagliava e odiava
ammetterlo.
Tutti continuavano a vederli
insieme, a dire che erano una coppia fantastica; loro sorridevano ai complimenti
e a lui andava bene così. L’accompagnava alle feste universitarie e ai
cocktail party della sua famiglia; lei era con lui ad ogni cena di lavoro. Non
erano quasi mai soli. Nelle ultime quattro settimane avevano fatto l’amore
solo tre volte; prima della crisi non passava giorno in cui non stessero
insieme. Ora capiva perfettamente come ci si sentiva ad essere traditi; durante
l’università aveva avuto decine di storie, tutte interrotte perché lui era
finito a letto con qualcun'altra. Non aveva mai cercato di capire lo stato
d’animo delle ragazze che tradiva, non dava peso ai sentimenti. Per lui non
era mai stato amore e non aveva mai fatto male. Ma con Kate era diverso: glie
era piaciuto giocare col fuoco e ora che si era scottato non aveva alcun diritto
di piagnucolare. Era amareggiato; era sempre stato un asso a deludere le persone
e ad uscire indenne da ogni situazione che implicava la sofferenza. Però
stavolta era il suo turno: Kate lo aveva deluso e sembrava provarci gusto.
Da quel giorno era stato a
letto con -quante?- dieci ragazze diverse, fidanzata esclusa. Ricordava i tempi
in cui quel gesto lo caricava d’adrenalina, lo eccitava. Ora era come
infliggersi una punizione: ogni sera una ferita diversa. E l’eccitazione era
sfumata. Lo faceva per vendetta nei confronti della donna perfetta che amava; lo
faceva perché non era ricambiato; lo faceva perché aveva troppo tempo libero;
lo faceva sperando ingenuamente di soffrire meno; lo faceva con automatismo,
come quando era a New York e non aveva nulla da fare e il sesso era l’unico
modo per eludere la rabbia e la frustrazione.
Con la coda dell’occhio
scorse la spider ormai familiare parcheggiata davanti al suo portone.
Fu la sua figura slanciata
ciò che vide nonappena entrò in casa. Era in piedi davanti alla finestra, gli
occhi fissi su un punto lontano, la luna forse, e l’espressione tirata del suo
viso non prometteva nulla di buono. Jess sospirò sollevato, perché sapeva
benissimo cosa sarebbe accaduto quella sera. Si chiuse lentamente la porta alle
spalle e lasciò le chiavi sul mobiletto che si trovava al suo fianco.
-avevi detto che saresti
rimasto a casa tutta la sera- iniziò Kate con un tono severo che non aveva mai
sentito nelle sue parole. Non disse nulla, data l’ovvietà della risposta e
lei continuò: -ti aspetto da tre ore. Il tuo cellulare è staccato e nessuno
dei tuoi amici aveva idea di dove fossi…
“ma tu sì” pensò.
-… ma io credo di aver
capito. Perché, Jess?
Da quando aveva iniziato a
parlare non l’aveva guardato negli occhi nemmeno una volta: il suo sguardo
continuava a vagare sulla città illuminata sotto di loro.
-potrei farti la stessa
domanda, Kate.
Cercava di restare
impassibile, ma lui vide che deglutiva a fatica e il suo corpo si era irrigidito
ulteriormente.
-non pensare di farmi una
scenata, perché tu ti sei comportata allo stesso modo e dio solo sa da quanto
ti scopi quel tipo!
-Jess…- ma non le diede il
tempo di replicare, perché sentiva la rabbia salire e se si fosse fermato non
le avrebbe detto più nulla.
-sono io a doverti chiedere
perché. Tutto andava benissimo tra noi, Kate, ma tu… TU hai rovinato tutto.
Chi diavolo è? Uno dei figli dei soci di tuo padre? O l’idraulico che è
passato da casa tua quando a Natale si è rotto il riscaldamento? Ti ha
riscaldata lui? O forse è il diligente fratello maggiore di uno dei bambini
dell’asilo? Bah, non so nemmeno perché stiamo qua a parlare quando non c’è
nulla da dire.
-da quanto lo sai?- gli
chiese timidamente.
-qualche settimana. Il tuo
“amico” ha lasciato un messaggio in segreteria il giorno in cui ti aspettavo
a casa tua. Siete stati davvero sfortunati- disse sarcasticamente.
-non mi hai detto nulla.
-non sapevo casa dire. Non
mi era mai capitato…
-mi dispiace.
-ma per favore!- rise –non
venirmi a dire che ti dispiace, perché ovviamente non è così. Anzi ti è
piaciuto eccome!
-sei impossibile!
-che c’è? Ti sei offesa?
Sono sicuro che avevi valide motivazioni per andare a letto con due uomini
contemporaneamente. La palestra ha aumentato il costo dell’abbonamento?
-non l’avrei mai fatto se
tu…
-è colpa mia quindi?
-no… sì… non l’avrei
fatto se tu mi avessi permesso di entrare nella tua vita.
-studiare psicologia ti sta
facendo saltare il cervello…
-tutti i tuoi segreti, Jess,
le cose che mi nascondevi, quel maledetto libro che stai scrivendo e di cui non
vuoi dirmi nulla solo perché devi ancora finirlo… sono la tua ragazza, devi
fidarti e appoggiarti a me!
-non posso credere di avere
le corna per via di un libro… e comunque non devo niente a nessuno. Tanto meno
a te.
-e poi … lascia stare. Hai
ragione: è inutile parlarne. Credo sia meglio finirla qui- disse raccogliendo
dal pavimento una scatola; -ho già preso le mie cose, così non dovrò tornare.
-avevi programmato tutto,
complimenti. Che idiota… pensare di innamorarmi di te. Come ho potuto essere
così ottuso?
-non lo sei. Io ti voglio
molto bene, Jess. Mi piaci davvero e tanto, ma…
-ami lui. Ok.
-no, non so se l’amo, ma
è quello che voglio scoprire.
-buona fortuna, allora- le
disse, e senza aspettare che gli rispondesse lasciò la stanza sbattendosi la
porta della camera da letto alle spalle.
Ascoltò i passi di Kate
farsi sempre più lontani, lo scatto della serratura, poi il silenzio. Si
sedette sul letto e aspettò alcuni minuti - cosa? L’arrivo di Godot?- e
decise di prendere l’agenda per sfogliarla alla ricerca del numero della
ragazza con cui aveva dormito quella sera. Come si chiamava? Jasmine?
Janice? Janine? C’erano scritti i numeri di tre ragazze con quei nomi e
ne fece uno a caso: non aveva importanza chi; voleva solo un corpo da stringere
e un paio d’occhi sinceri.
Da allora erano passati solo
alcuni mesi; si era promesso di non ricadere più in quella trappola, aveva
giurato che Kate non avrebbe più messo piede in casa sua, che non si sarebbe
lasciato sedurre ancora dai suoi occhi verdi e da quel profumo costoso. Quando
ricordava i bei momenti della loro storia e si ritrovava a sorridere, lasciatosi
trasportare da antiche passioni, gli bastava recitare nella sua testa il
messaggio che l’amante aveva inciso nella segreteria. Aveva sempre memorizzato
passaggi dei libri che più amava, aforismi carichi di significato colati dalla
penna d’autori che ormai erano solo polvere, mentre adesso si ripeteva parole
vuote, innocue e quotidiane, ma affilate come la lama del coltello che gli
faceva a pezzi il cuore ogni volta che ripensava a quella sera: lui, un cd tra
le mani, la voce di quell’uomo. Ironico…
Odiava sentirsi in quel modo.
Era successo solo una volta prima di allora e anche a quei tempi aveva
fermamente deciso che non sarebbe più accaduto… beh, forse non così
fermamente.
Dal bagno sentiva lo stereo
suonare una melodia che non riconosceva: sembrava musica classica, Mozart,
forse. Il ritmo era lento, poi improvvisamente scoppiava un’esplosione di note
che gli fece accelerare il battito. Era un alternarsi di calma e irrequietezza,
debolezza e forza, la quiete prima della tempesta. Era un segnale? Forse stava
per accadere qualcosa e lui non era riuscito ad interpretare i simboli. La cosa
certa era che era ricaduto nella trappola: era stato un errore? Quando una
settimana prima si era presentata a casa sua, lui la odiava ancora, sentiva il
disprezzo crescergli dentro, ma il punto era un altro: aveva bisogno di qualcuno
che lo distraesse e Kate era la persona più adatta. Inoltre, nonostante la
rabbia, era ancora attratto da lei, la voleva. Era certo di non amarla più, non
come prima almeno, e forse ciò che l’aveva spinto ad andare da lei, a
proporle di riprovarci, anche se solo per poco, a baciarla come i primi giorni
in cui si erano frequentati era desiderio di rivincita. Voleva vedere se
l’amava veramente come aveva proclamato, se avrebbe sofferto nel momento
dell’addio.
Sentì il telefono suonare, ma
non si mosse dal bagno, incapace di interrompere la contemplazione della sua
immagine riflessa nello specchio. Dopo un paio di squilli, la sua voce sensuale
sovrastò la musica.
Gli ricordava Shane. In quel
frangente poteva metterle sullo stesso piano: una distrazione. Con un piccolo
sforzo riuscì a ricostruire il loro primo incontro, anche se molti dettagli
erano vaghi: era seduto su una panchina all’ombra di un albero. Quell’estate
era stata incredibilmente calda e Luke si era rifiutato di comprare un
condizionatore, così l’unica soluzione per non sciogliersi era uscire e
cercare un posto un po’ più fresco degli altri, anche se questo voleva dire
essere controllato continuamente dall’occhio vigile di Taylor. Stava fingendo
di leggere un libro, non ricordava esattamente quale perché la sua mente era
indietro nel tempo a tre settimane prima: il giorno del suo ritorno e del
matrimonio di Sookie. L’aveva baciato ed era fuggita a Washington senza dirgli
nulla, senza una spiegazione, senza chiarire le cose tra loro, e da allora non
l’aveva chiamato, non gli aveva scritto, nulla. Come se non avesse avuto
importanza.
-Che fai? Studi?- si era
sentito domandare. Si erano incrociati per i corridoi della scuola mille volte,
ma non erano mai stati presentati.
-no.
-leggi?
-a te cosa sembra?
-è interessante?- gli
chiese ancora dopo un attimo di silenzio, forse dovuto allo sconcerto delle sue
risposte brusche. Jess emise un sospiro e chiuse le pagine del libro con troppa
violenza, perché vide la ragazza sussultare.
-non ne ho idea- le rispose
sinceramente; -tu sei?
-Shane. E tu Jess.
-conosci il mio nome?- le
chiese con stupore.
-conosco i nomi dei ragazzi
carini e di quelli che fanno a botte con Chuck Presby, soprattutto se gli fanno
un occhio nero.
-è successo l’anno
scorso. Te ne ricordi?
-Jess Mariano, trasferitosi
da New York per vivere con suo zio, dopo una sola settimana a Stars Hollow pesta
il bullo della scuola. Sei stato sulla bocca di tutti per un po’. In questa
città le notizie corrono veloci e si sono dette molte cose sul tuo conto; il
problema è riuscire a distinguere il vero dal falso… e se mi offrissi un caffè
potrei scoprire cosa si sono inventati su di te.
-ok- le rispose senza
esitazione, -dopotutto non ho niente da fare.
Tre ore dopo si stavano
baciando sul retro del locale di Luke. Aveva aspettato tre intere settimane che
Rory si facesse viva: il tempo massimo era scaduto da un pezzo e lui non era
Dean.
Tutti quei pensieri gli stavano
facendo venire un fastidioso mal di testa; aprì la porta e tornò in camera,
dove Kate era distesa sul letto intenta a sfogliare uno dei libri che aveva sul
comodino.
-chi era al telefono?- le
chiese togliendosi i vestiti e restando in boxer, mentre la ragazza posava il
testo al suo posto.
-non lo so, hanno riattaccato.
Forse era qualcuno che ha sbagliato numero.
-Forse.
-Jess?- disse Kate quando la
luce fu spenta ed erano l’uno canto all’altra, -pensi mai a quello che è
successo questa primavera?
-no- mentì.
-io sì. E se accadesse tutto
di nuovo? Se le cose andassero male…
-non accadrà- la interruppe
fissando il soffitto sul quale si rifletteva la debole luce che veniva dai
lampioni della strada; -ora dormi.
-ora calmati, tesoro- aveva
detto sua madre al telefono. Rory smise di camminare avanti e indietro per la
stanza e si sedette sullo spigolo del letto respirando a fondo.
-ok, sono… non calma, ma
meno agitata.
-bene. Ascoltami
attentamente: potrebbe essere un semplice ritardo…
-di due settimane!?- la
interruppe.
-sì, anche di due
settimane. La cosa più sensata è smettere di preoccuparsi e giungere a
conclusioni affrettate. Parla col tuo dottore, fatti prescrivere delle
analisi… è l’unico modo per avere la più assoluta certezza.
-ok, lo chiamo subito. No,
lo chiamo domani… qui sono le due di notte. Non credo che riuscirò a dormire,
mamma.
-lo so. È una strana
sensazione, vero? Ma devi provarci, Rory. Ci vorrà un po’ di tempo prima di
avere i risultati e hai bisogno di riposarti. Se solo fossi più vicina…
-grazie, so che verresti
subito, ma non devi preoccuparti. Io… mi riguarderò, farò yoga, chiamerò
Madonna per farmi dare qualche consiglio: lei sa sempre tutto su tutto.
-ok, ora va a dormire,
signora Ciccone. È stata una lunga giornata. Chiamami quando vuoi, ok? Ti
voglio bene.
Quelle erano state le parole
che Lorelai le aveva detto una settimana prima. Non aveva chiuso occhio quella
notte pensando e ripensando alla possibilità che dentro di lei stesse crescendo
un bambino. Aveva fatto le analisi ed entro pochi minuti le avrebbe ritirate, ma
sembrava non riuscire a mettere piede nell’ambulatorio: era passata davanti a
quella porta a vetri diverse volte, poi aveva deciso di aver bisogno di fare due
passi e senza accorgersene si era ritrovata a Nôtre Dame. Dall’alto della
cattedrale i gargoiles la fissavano con uno sguardo inquisitorio e Rory si
chiese se la stavano giudicando. Decisa ad evitare quelle occhiate che la
facevano sentire in colpa, si unì al gruppo d’inglesi che stavano davanti
all’ingresso ed entrò con loro in quella maestosa chiesa. All’interno
c’erano decine e decine di turisti nascosti dalla penombra che, silenziosi,
percorrevano le navate e corrugavano la fronte cercando di ricordare i
particolari architettonici delle sculture e rievocavano nozioni di storia
dell’arte sepolte sotto altre memorie; dei bambini camminavano al fianco dei
genitori intimoriti dall’aria solenne che quel luogo aveva, altri
sbadigliavano vistosamente. Conosceva bene Nôtre dame, l’aveva visitata molte
volte prima di quel momento, ma ogni volta era emozionante percorrere lentamente
ogni centimetro di quella chiesa ammirandola in tutti i suoi particolari. Eppure
quel pomeriggio non si sentiva in vena di fare la turista, così avanzò lungo
la navata centrale e si sedette in una delle prime panche.
“So bene di non essere
un’assidua praticante” disse dentro di sé rivolgendo lo sguardo al
crocefisso davanti a lei, “ e spesso dimentico del tutto l’aspetto religioso
della mia vita. E so anche che questa non è la mia chiesa, ma Dio, anche se lo
chiamiamo con nomi diversi, è uno solo per tutti, no? Ci sono popoli in guerra
a causa tua e persone come me che invece non riescono a prendersi due minuti per
parlarti… io spero che mi ascolterai anche se non sono una delle tue figlie,
perché ho veramente bisogno che qualcuno mi aiuti e tu non fai distinzioni di
alcun genere, giusto? Poveri, ricchi, peccatori, cattolici, protestanti,
musulmani… siamo tutti parte di una famiglia e adesso credo di aver bisogno di
un padre, dato che il mio è dall’altra parte del mondo con un’altra
famiglia e un’altra figlia.
È vero, non prego spesso e
forse, anzi sicuramente, sono un’egoista a rivolgermi a te solo ora, ma qui
sono da sola e non posso parlare con nessuno di ciò che mi sta accadendo. Mia
madre ha cercato di rassicurarmi, ma so che la mia paura di avere un figlio non
l’ha certamente resa orgogliosa: lei adora i bambini e vuole averne uno con
Luke, perché si amano, sono felici e sono sposati e non c’è motivo per cui
non debbano concludere in bellezza con un bel bambino, no? Però io… non
riesco ad immaginarmi a casa con un figlio e Matt. Voglio un gran bene al mio
fidanzato, mi è stato vicino per così tanto tempo, lo amo. Ma non voglio un
figlio, non ora. Non so perché, ma è così. Ok, il mio comportamento è strano
perché, diciamocelo, ogni donna farebbe qualunque cosa per trovarsi nei miei
panni e aspettare un figlio dall’uomo che ama. Mi sento confusa… questa cosa
non era nei miei programmi e odio quando i miei piani non vengono rispettati: io
dovevo laurearmi, diventare una giornalista famosa, girare il mondo. Poi mi
sarei sposata. Invece mi sono solo laureata e ci sono ancora troppe cose che
devo fare prima di pensare alla famiglia. Vorrei parlarne a Lane, ma non
capirebbe e poi nel giro di pochi secondi sicuramente l’intera città ne
verrebbe a conoscenza e siccome non c’è nulla di certo…
I risultati sono in laboratorio
e avrei già dovuto leggerli, ma fa paura: forse è solo un falso allarme, forse
no. Mi chiedo come fanno certe persone ad essere così introverse da non
confidarsi mai con nessuno. Io sto impazzendo! Stamattina stavo per dirlo a
Jess. Però quando ho sentito quella voce… quella di una donna… ho provato
una strana sensazione, sai? E ho riattaccato. Non so se sia più scioccante
scoprire che Jess esce, anzi dorme con qualcuno o l’idea di essere incinta. È
tutto cambiato da quando ci siamo rivisti quest’estate: posso parlargli di
qualunque cosa e lui mi risponde, mi consiglia; è come essere tornati indietro
nel tempo e non so cosa farei senza di lui. Ma quella voce… mi fa pensare alla
Kate di cui ho sentito parlare, al suo rifiuto di rispondere al telefono quel
giorno al locale di Luke. I miei propositi di confessione sono svaniti e ho
capito che per l’ennesima volta sto dipendendo da lui. Jess ha la sua vita e
io la mia, dovrei cercare di tenerle separate, segnare una linea di confine
nella nostra amicizia, perché ci sono cose che non si possono dire ad un amico.
Ma io mi comporto esattamente nel modo opposto e a volte mi sembra che il mio
fidanzato sia lui: l’affetto che provo per Jess mi fa dimenticare che è Matt
l’uomo che dovrei chiamare, quello a cui dovrei svelare le mie paure per
questo bambino. Accidenti, è Matt che deve sapere che forse sta per diventare
padre!
Disapprovi tutto questo, vero?
Per te i figli sono un dono e, credimi, anche io la penso così, ma in questo
caso non sono pronta… non credi che dovrei sentirmi preparata? Non si scrivono
articoli senza informazioni e non si parla ad una conferenza senza aver
preparato un discorso. Allo stesso modo non posso mettere al mondo un bambino di
cui non potrei prendermi cura al meglio, lo dico anche per il suo bene. Ci vuole
stabilità, una vita normale, genitori che si amano, sposati magari, che vivono
insieme, una posizione lavorativa salda e sicura per poter provvedere a lui e i
soldi non saranno un problema solo quando la mia carriera sarà avviata. Non mi
va di chiedere prestiti a mia madre o a mia nonna… voglio più certezze, perché
il mio bambino non merita di starsene seduto per ore sul pavimento della sua
stanza a chiedersi se un giorno mamma e papà torneranno insieme o di illudersi
che le cose stanno migliorando o di essere seduto su una poltrona umiliandosi e
pronto a rinunciare ai suoi sogni per colpa mia.
Io e mio marito gli daremo
tutto ciò di cui ha bisogno e provvederemo a lui, ma ora non ci sono le
premesse perché tutto questo sussista: io vivo in un continente diverso da
quello di suo padre e me ne sto seduta in una chiesa sperando di non essere
incinta! Non è così che deve
andare: dovrei essere felice, radiosa, guardarlo negli occhi e vedervi la gioia
che io stessa provo, magari anche qualche lacrima… poi dovrebbe abbracciarmi,
stringermi e cominciare a fare piani per il futuro, pensare allo sport che
praticherà, al college che potrebbe frequentare…”
Spostò lo sguardo dal viso
della statua appesa alla parete e si guardò intorno: i turisti sembravano
diminuiti e non si curavano di lei. Sentì il senso di colpa correrle nel sangue
mentre formulava il successivo pensiero; “e poi c’è un’altra cosa…
io… non sono certa di volere che Matt mi stringa anzi, ad essere sincera, temo
che il suo abbraccio mi spaventerebbe… abbiamo già chiarito che non voglio un
figlio ora, ma non ti ho detto che non voglio un figlio… da Matt. Mi serve
tempo per capire cosa mi sta succedendo ed è per questo che devi aiutarmi,
perché un bambino deve nascere anche in un clima diverso, d’amore e sua madre
dovrebbe ringraziarti per questo miracolo, non pregarti di cambiare le cose.”
Abbassò gli occhi, quasi
intimorita dalla sentenza che il Cristo avrebbe potuto emettere e vide una donna
con un bebè tra le braccia sedersi poco lontano da lei. Istintivamente si mise
una mano sulla pancia e il pensiero che qualcosa si stesse sviluppando la fece
deglutire a fatica. Scosse la testa e si alzò, pronta a dirigersi
all’ambulatorio con la chiara intenzione di entrare e dare un taglio a
quell’incertezza; camminò senza pensare a nulla, mentre l’eco dei suoi
passi sul pavimento della navata riecheggiava nella sua testa.
PS: Nôtre Dame è una chiesa
cattolica, ma purtroppo non ricordo se c’è un crocefisso all’interno. Si
svolgono delle funzioni quindi immagino di sì, comunque poiché non ne sono
certa, facciamo finta che sia così, ok?