Titolo: New YorkAutore: Elena_RGenere: LiteratiParing: Jess e RoryTipo: One shotStato: ConclusaCommenti: all'interno
Breve descrizione da parte dell autore: so che non è molto, spero che non la odierete...
è un capitolo unico (almeno per ora) e non siate troppo crudeli... scrivere queste poche pagine mi è servito per uscire dalla fase di blcco in cui ero e i vostri commenti carini dovrebbero gonfiare il mio ego permettendomi di tornare ad esprimermi in modo decente...
a voi...
New YorkAveva vissuto in decine di città e vagabondato da una all’altra vedendo il meglio e il peggio di ognuna di esse, ma in tutti quegli anni passati a cambiare residenza non era mai riuscito a smettere di amare con tutto se stesso i grattacieli che l’avevano visto nascere e crescere: New York poteva essere caotica, rumorosa, sporca, pericolosa, ma aveva un fascino tutto suo, un qualcosa che la rendeva uguale alle altre eppure diversa da tutte loro (unica: questo era ciò che pensava di lei).
Aveva cercato di capire di cosa si trattasse, aveva sviscerato ogni suo angolo, i contorni e le sfumature, ma alla veneranda età di ventotto anni non aveva ancora carpito il suo segreto; a volte era come una donna il cui pensiero è ermetico, difficile da decifrare, impossibile da assecondare. Altre quella stessa donna gli sussurrava nelle orecchie dolci parole chiare, gentili, e allora non poteva fare a meno che sorriderle e amarla nei suoi pregi e nei suoi difetti.
Però c’erano giorni in cui quei grattacieli diventavano opprimenti, il pericolo qualcosa che poteva fare paura e il caos la cosa più fastidiosa in assoluto. Giorni in cui voleva gridare, rompere bottiglie contro i suoi muri neri per i gas di scarico, prendere tutto a calci nella vana speranza che per una volta fosse la sua donna ad ascoltarlo e a rendersi disponibile per lui.
E quello era uno di quei giorni.
Alzò gli occhi dal display della radio dopo averla spenta con una violenta pressione del dito, visto che trasmettevano solo pop e country, e gettò un’occhiata davanti a sé tamburellando con l‘indice sul volante: la lunga fila di auto immobili in mezzo al traffico sembrava non accennare a scorrere e se avesse continuato di questo passo non sarebbe mai arrivato a destinazione. O sarebbe arrivato troppo tardi: non era certo quale delle due opzioni gli mettesse più paura.
Il pallido sole primaverile aveva comunque la forza di riflettersi sulle carrozzerie e creare un leggero gioco di luci che animava, seppur poco, la triste situazione in cui si trovava; non che gli importasse l‘intrattenimento della luce che schizzava da una parte all’altra della strada, ma perlomeno fungeva da distrazione, seppur per pochi istanti, in quella distesa di lamiere.
A dispetto del rumore della città che viveva, sentì “London calling” provenire da una delle macchine che attendevano come lui di procedere e si voltò d’istinto cercando di vedere chi la stava ascoltando: un paio di ragazzi seduti nella loro auto sportiva sorridevano e si muovevano al ritmo dell’ultimo rap di chissà quale delinquente figlio di 50cent, una signora di mezza età si rifaceva il trucco nello specchietto retrovisore approfittando della lunga pausa dalla guida ed esattamente al suo fianco, ferma nella corsia opposta, una ragazza stava sorridendo al suo bambino di pochi mesi seduto nel sedile del passeggero e canticchiava un motivetto che, dal movimento delle labbra, non poteva essere alto che il testo dei Clash. La visione di quella creatura lo fece sussultare e tornò a concentrarsi sulla lunga fila di macchine che all’improvviso aveva percorso qualche metro, così si mosse a sua volta spingendo il piede sull’acceleratore accorciando la distanza tra sé e la sua meta. Per un attimo sorrise quando vide il cartello che gli indicava l’ospedale, poi improvvisamente sentì un nodo allo stomaco.
E girò a destra.
Contro ogni aspettativa trovò quasi immediatamente un parcheggio e in meno di un minuto fu seduto nella sua macchina, col motore spento, lo sguardo fisso sul cruscotto e le mani ferme sulle ginocchia. Si sentiva in dovere di aspettare una risposta, una parola da New York che gli dicesse cosa fare e come comportarsi in quella situazione. Pensò alle notti in bianco passate nella disperata ricerca di una motivazione valida e del coraggio per fuggire da tutto, ma nonostante l’impegno non aveva trovato una sola ragione per cui salire sul primo autobus e andare lontano fosse la soluzione più giusta. Partire significava perdere tutto in cambio di niente e a quel punto della sua vita non se la sentiva di rischiare: amava la sua città ed ogni cosa che la abitava. Ogni persona che l’abitava anche se non era una vera newyorchese .
Non aveva bisogno di aspettare un segno divino o una luce che lo illuminasse: aveva capito da tempo cosa era giusto e cosa era sbagliato, ma gli piaceva l’idea di gongolarsi nel dubbio e soffrire un po‘ così che si sarebbe meglio goduto il futuro che lo attendeva.
Richiuse con misurata calma la portiera e in un distinto modo inglese e tranquillo iniziò a camminare verso l’ingresso; sentiva il suo cuore battere forte, troppo forte e in netto contrasto rispetto a come invece sarebbe dovuto apparire. Combatté con le sue forze per mantenere la facciata, ma all’improvviso, stanco di dovere sempre reprimere i suoi istinti, esplose in una felina corsa che non sedò nemmeno dietro le minacce di un’infermiera che aveva quasi travolto. Qualcuno gli disse il numero della camera e mentre rallentava il passo cercò di ricordare chi fosse stato e soprattutto come avesse fatto a sapere che necessitava di quell’informazione visto che non aveva memoria del momento in cui aveva aperto la bocca per chiederglielo.
Non fu difficile trovarla: aveva appena svoltato nel corridoio e iniziato a leggere i numeri sulle porte quando il rumore di una che si apriva seguito da delle grida catturò la sua attenzione; degli infermieri stavano trascinando un letto e su di esso una donna si agitava e protestava con sicurezza.
“No, voi non avete capito,” disse tentando di mettersi a sedere mentre uno dei ragazzi la riportava gentilmente con la schiena sul materassino.
“Signora, per favore…”
“Io non mi muovo di qua finché…”
“Rory?” gridò per farsi sentire mentre riprendeva la sua corsa per raggiungerla.
“Ah! Eccoti, finalmente!” lo ammonì con un tono di voce alterato che raramente aveva sentito. “Ce ne hai messo di tempo!”
“Oggi il traffico è peggio del solito, sai anche tu com‘è all‘ora di punta,” le disse fermandosi a pochi centimetri da lei. “E poi non potevi decidere di partorire in un altro momento?”
“Hey, guarda che non ho potere decisionale in questo!” gli rispose massaggiandosi il pancione. “Dovrai chiederlo a tuo figlio quando sarà nato.”
Tuo figlio. Suo figlio. Padre. Nove mesi non gli erano bastati per abituarsi, ma forse avrebbe fatto meglio a sbrigarsi perché entro poche ore tutto sarebbe diventato realtà.
“Signora,” disse uno degli infermieri timidamente. “Noi dovremmo portarla in sala parto.”
“Sì, possiamo andare. Ah!” urlò sollevando nuovamente la schiena e stringendo le lenzuola del letto fino a strapparle.
“Rory?” le chiese preoccupato. Lui era terrorizzato e a lei quella situazione doveva sembrare tre volte più spaventosa.
Perché stava male fisicamente.
Perché stava per dare la vita ad un essere umano.
Perché in qualsiasi momento lui sarebbe potuto sparire.
Allungò timidamente il braccio e mise la mano nella sua ricevendo in cambio un sorriso: sembrava avesse capito che non aveva idea di come comportarsi e volesse rassicurarlo. Era più forte di lui, questo l’aveva sempre saputo.
“E’ tutto ok,” la sentì sussurrare per la prima volta in quei pochi secondi. “E mai madre?”
“Le ho telefonato prima di uscire, sta arrivando insieme a Luke.”
La guardò annuire, improvvisamente timida e piccola tra quelle lenzuola: “Va bene, ora sbrighiamoci: a quanto pare il signorino ha fretta.”
Urlò di nuovo, questa volta stringendo la sua mano e quasi spezzandogli le ossa. “Jess!”
Si guardò intorno e da una finestra scorse i grattacieli di New York: dove un tempo non c’erano stati altro che verdi pascoli ora si erigeva una città maestosa, case enormi. Era partita da zero ed era cresciuta diventando ciò che ora vedeva. Qualcuno l’aveva vista nascere e crescere e crescere e crescere: ora toccava a lui.
“Sono qui,” la rassicurò con un sorriso tornando a concentrarsi sul suo viso pallido e gli occhi lucidi. “Sono qui.”
i commenti nell'apposita sezione, tnx.
Edited by Reflecting Light - 1/4/2007, 17:47