That bittersweet taste of yours, fanfic di *Mely*

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mely's LC
icon4  view post Posted on 28/1/2004, 18:50




Titolo: That bittersweet taste of yours
Autore: Mely
Genere: Fanfiction
Stato: Conclusa

Commenti: Qui

Breve descrizione da parte dell autore:

Nota: questa è la traduzione della fanfic che sto scrivendo in inglese su www.fanfiction.net. Nasce a metà tra un racconto e una poesia, perchè è così che mi viene naturale scrivere, quindi non è sottoforma di dialoghi diretti o di sceneggiatura. Spero vi piaccia lo stesso!

Un ringraziamento speciale a Amy Sherman Palladino per darci le GG e a Milo Ventimiglia per essere Milo Ventimiglia...





That bittersweet taste of yours
*a literati fanfic*




Capitolo 1


– INSOMNIA –

Si svegliò di nuovo. Con un movimento lento della mano girò la sveglia: le 3.08 e niente sonno nei suoi occhi. Niente. Di nuovo. Stava diventando una specie di abitudine: ogni notte si svegliava e passava il resto del tempo leggendo o scrivendo, per lo più forzando se stesso a non pensare a lei. Lei. Ancora. Come un tatuaggio nell’anima.
Non pensava che vivere così lontano da lei sarebbe stata tanto dura. In fondo lui era sempre stato quello forte, quello abituato a non aver bisogno di nessuno, quello che non aveva niente da perdere, quello che ce la faceva da solo...Ma nello stesso istante in cui la vide scendere dall’autobus, pochi mesi fà, seppe che non era forte abbastanza per sopportare quella sensazione di gelo nelle vene...
Non era abbastanza forte.
Ecco perchè aveva cercato di chiamarla tutte quelle volte e tutte quelle volte senza la forza di dire una parola. Non era abbastanza forte. E una volta ancora era stata lei ad avere parole sufficienti per entrambi. E aveva ragione, dannatamente ragione: lui aveva davvero rovinato tutto.
Jess sospirò profondamente, passandosi le dita tra i capelli arruffati, quasi come se potesse cancellare anche tutto l’arruffio dei suoi pensieri, e si alzò dal divano di suo padre. Attraversò il buio della stanza, prese un blocco dalla sua sacca verde e si sedette vicino alla finestra aperta.
Eccolo lì, di nuovo, ad accendersi una sigaretta, da solo nella notte della california con la sola compagnia del pianto dell’oceano e del pianto del suo cuore e nient’altro in mente se non i suoi occhi, come una visione, come un’illusione, come una speranza.
Eccolo lì, di nuovo, seduto nella penombra della luna, cercando di non pensare a lei ma troppo fragile per vincere quella battaglia con tutti i ricordi che gli bruciavano dentro.
Eccolo lì, di nuovo, arreso all’incessante bisogno di scriverle, di condividere con lei un pezzetto della sua anima.

Carissima Rory,

Guardò fuori dalla finestra, soffiando via il fumo nell’oscurità, come se potesse soffiare via anche tutto il suo dolore e la sua frustrazione. Una lacrima gli scivolò sulla guancia, piano piano, dolcemente.

“Non pensavo sarebbe stata tanto dura”, sospirò.













Edited by Reflecting Light - 18/7/2006, 00:56
 
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mely's LC
view post Posted on 28/1/2004, 18:52




Capitolo 2


- LETTERE, FANTASMI E ODORE DI CAFFE’ -



Carissima Rory ,

È una di quelle notti in cui la mia mente vaga senza sosta, creando fantasmi e fantasie, e il desiderio, l’urgente bisogno di scriverti mi affanna il respiro.
Eccomi qui, a cercarti nella luna della California, a sussurrare i miei pensieri nel buio, a parlare a te che stanotte riempi l’aria della mia stanza.
Sei qui, come una creatura immaginaria, uno spirito fatato, una presenza evanescente che mormora intorno a me, tra i miei pensieri. Tendo una mano per toccarti, riesco a sentire la tua pelle sfiorare la mia, il tuo lieve odore di caffè, il tuo respiro tranquillo.
Sei qui con me, bruci nella mia mente come una fiamma perenne, e ancora una volta mi rendo conto di quanto ho bisogno di te e di quanto ti amo.
Si, perchè per quanto possa sembrarti stupido e patetico e inutile, ormai, ti amo. E fa male.
Sei un soffio di vita in questa notte insonne.
Sei stata un soffio di vita nella mia vita.
Mi guardo intorno e riesco ad immaginare il tuo contorno: ti avvicini, gentilmente, ti stendi accanto a me, stretta stretta.
Silenzio.
Il battito dei nostri cuori. Il tempo che si ferma. Calore. Magia.
Mi piace pensare che forse anche tu mi stai sognando, che forse tutte queste sensazioni sono le nostre anime che si sfiorano. Vorrei che fosse così. Vorrei che le cose tra noi non fossero così incasinate.
Resta. Resta così. Non scomparire. E’ il nostro angolo di paradiso.
Sapori. Sussurri. Fruscii. Le mani che si intrecciano in giochi infiniti.
Piano. Profondamente. Intensamente.
Eccolo qui il mio amore, più forte del tempo, più forte della distanza.
Complicità. Amicizia. Comprensione. Labbra che si assaggiano. Momenti incantati.
Pelle: la tua, la mia.
Eccomi qui, di nuovo, ad amarti più forte che posso.
Calore. Libertà. Eternità. Magia. Mistero. Amore.
Amore.
Tu ed io.
Come una fiamma perenne che brucia nella mia mente.
Ma tu non lo sai ed io non te lo dirò.
Jess


Guardò fuori, era l’alba. Dalla cucina veniva odore di caffè, amaro e dolce come le sue parole.
Si alzò, piegò con cura la lettera e la ripose in un libro nella sacca verde, insieme a decine di altri libri, insieme ad altrettante parole per lei, piegate con cura. Parole che non le avrebbe detto.

 
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mely's LC
view post Posted on 30/1/2004, 16:08




Capitolo 3


- ATTIMI -


Basta un attimo, a volte. Un solo attimo, e ti ritrovi al punto di partenza. Ci hai messo anni, hai impiegato anni ad allontanarti da lì, a farti una vita tua, poi basta un attimo e tutto ti riporta esattamente lì dove non volevi stare.
Pensava a questo Liz, mentre scendeva dall’autobus.
Un attimo, quell’attimo in cui hai come la sensazione di vederti da fuori, e scopri di non piacerti in fondo poi tanto. Era bastata una vecchia foto scivolata via da chissà dove, chissà come, per farle sentire il profumo dei muffin di suo padre, quando da bambina, di nascosto, ne prendeva uno ancora caldo e scappava dal locale. Correva, il sole tra i capelli, fino al ponticello e si sedeva. Poteva starci ore, lì a gambe incrociate sul legno a guardarsi riflessa nell’acqua, mentre scioglieva in bocca il sapore dei mirtilli.
Era bastata una vecchia foto, per sentire di nuovo la voce di suo fratello che la cercava.
Un attimo, una foto, lei bambina, ed aveva deciso che forse era giunto il momento di fare pace col passato, con se stessa.
La sua vita era un gran casino. Cercò di ricordare quando, esattamente, le cose avevano iniziato ad andare in quel modo e se aveva mai realmente fatto qualcosa per evitarlo. Prima la morte della madre, papà che non parlava, mai un sorriso o una carezza. Papà che lavorava, papà che per sentirlo vicino gli rubava i muffin ancora caldi e se li mangiava piano giù al ponticello, ogni boccone era un bacio. Poi lei che cresceva e quella piccola città perfetta che la soffocava, lei che perfetta non riusciva proprio a sentirsi, e ancora papà che non capiva, suo fratello che non capiva, e la voglia di andarsene che le riempiva il petto. Finchè una sera, si decise: infilò pochi vestiti in una sacca, qualche gonna tintinnante, gli orecchini di turchese che le stavano così bene, aspettò che suo padre e suo fratello fossero impegnati con certi fornitori e se ne andò. Così. New York. Sola andata.
L’autobus partì con un gran ruggito, Liz appoggiò la testa al vetro del finestrino e socchiuse gli occhi, mentre scioglieva in bocca un bacio per papà. Era ancora caldo e sapeva di mirtilli.
Le sembrava di respirare meglio, ora.

New York l’accolse urlante e confusa. Imparò anche lei ad urlare, ma presto finì col confondersi e forse fu lì da qualche parte che iniziò a perdersi. Anche quella volta bastò un attimo: la voce di Luke al telefono che le dice che papà non c’è più, lei che non torna, poi un pò di fumo, la musica alta, due occhi che te li sentivi sulla pelle...ed eccola lì, con un fagottino caldo e morbido che le piangeva in braccio.
Poi fu la sua voce. Furono poche parole: vado a comprare i pannolini.
Fu lei, sola, con un figlio che in fondo non voleva.
Fu ancora lei, sola, con un figlio che non sapeva amare.
Fu lei, alla fine, sola, con un figlio chissà dove che non la voleva più.

Pensava a tutte queste cose, Liz, mentre apriva la porta del locale.

“Ciao Luke...”.

E chissà cosa pensò suo fratello, quando alzò lo sguardo dal bancone e la vide lì, con la sua gonna tintinnante e quegli orecchini di turchese.


(Nota: in realtà questo capitolo doveva parlare di Rory, ma poi Liz ha preso il sopravvento...Riesce ad essere davvero insistente quando ci si mette...)

 
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mely's LC
view post Posted on 1/2/2004, 23:45




(Nota: avevo postato questo cap. incompleto. Ora è a posto)



Capitolo 4


- TORTE IN FACCIA E CASTELLI DI CARTE -

Certo che sa essere proprio incredibile la vita, quando ci si mette. Assurda, pazzesca, davvero. Ti lascia credere di avere tu il controllo, di poter portare avanti le tue scelte, di fare delle scelte definitive e determinanti, te lo lascia credere per un pò, finchè ad un bel punto ti prende di spalle, all’improvviso, ti picchietta sulla spalla e tu ti volti distrattamente...ed eccola lì, a sbatterti la realtà in faccia con un sorrisino divertito.
Buffo, quasi...Come le torte faccia nei film muti...
E quel giorno i lanci furono due, perfettamente riusciti, a quattro fusi orari di distanza. Due equilibri sofferti e traballanti franati nel lampo di una certezza improvvisa, come castelli di carte in un soffio di vento. Non era finita.

Rory se ne accorse subito, quella mattina, che la giornata avrebbe preso un sapore particolare. Un sapore che non aveva da tempo. Un sapore dolce-amaro, come il caffè.
Si alzò prima del solito, dopo essersi girata e rigirata nel letto, madida di sudore. Dopo un bel pò di tempo, da quando lui se ne era andato in quel modo vigliacco e assurdo, aveva di nuovo fatto quel sogno. Quello stupido sogno. Quegli occhi scuri come la notte, quegli occhi profondi e belli, quegli occhi che sapevano abbracciarla e respingerla al tempo stesso, quegli occhi che sapevano amarla e ferirla, quegli occhi che bucavano, che entravano a prepotenza nell’anima, quegli occhi caldi e dolci e spaventati e lontani e tristi e morbidi e sferzanti...Quegli occhi...Quante volte si era persa nel mare in tempesta di quegli occhi, cercando una risposta, cercando il drago cattivo che si nascondeva laggiù in fondo e che li faceva diventare gelidi, quegli occhi. Lo avrebbe cancellato, lei, il suo dolore, avrebbe ucciso il drago, se solo glielo avesse permesso. Quegli occhi, di nuovo. I suoi occhi.
Si, perchè sa essere anche questo, la vita: due occhi che tornano, due occhi che si ripetono insistentemente come un’eco mai realmente sopito.
Si alzò con il cuore pesante come non lo sentiva da tempo, prese il suo zaino, le chiavi della macchina e partì. Le uniche due cose che potevano farla stare meglio, quel giorno, erano sua madre e una tazza gigante di caffè. Se poi le aveva insieme e il caffè era quello di Luke, non poteva non funzionare.

Se ne accorse anche Jess e fu come un brivido leggero lungo la schiena. Quel giorno, il modo in cui il sole sorgeva, aveva un chè di decisivo.
Ripose la lettera tra le pagine di un libro nella sacca verde e andò in cucina. Suo padre uscì sbattendosi la porta alle spalle, non una parola. Jess si versò una tazza di caffè e si sedette lì, da solo, con la testa appoggiata su una mano e lo sguardo a terra. Come diavolo aveva fatto a cascarci in quel modo...
Ci aveva creduto davvero, ad un certo punto, che le cose potessero funzionare con suo padre. Sarà stato per quel suo modo di guardare alzando un sopracciglio o per come teneva le mani nelle tasche dei jeans quando non sapeva cosa dire...
Era cresciuto con i racconti di mamma, con la rabbia di mamma, gli uomini son tutti uguali, ripeteva lei giorno dopo giorno. Siete tutti uguali, voi Mariano. Sei come tuo padre, non ci si può fidare di te. Era cresciuto pagando per degli errori che non erano suoi, per un dolore che non aveva causato lui. E finì col convincersi che forse era vero, quando l’unica risposta che seppe trovare, di fronte alla paura di leggere la delusione sul volto della sua Rory, fu scappare.
Tipico. Un talento dei Mariano.
Ma era cresciuto anche desiderandolo, suo padre, desiderando una pacca sulla spalla, un pomeriggio a giocare a basket, una dritta sulle ragazze, anche una sberla magari. E fu per questo che, quando lui apparve all’improvviso nella sua vita, osò giocare con l’idea che forse anche suo padre aveva pensato a lui, qualche volta, e che poteva andare a stare da lui, che poteva funzionare tra loro. In fondo se aveva attraversato un continente solo per vedere com’era, voleva pur dire qualcosa...
Ci aveva proprio creduto. Fino alla sera prima.
Jess sorrise amaramente, con una specie di smorfia, ripensando alla sera prima, al modo in cui poche parole lo avevano riportato in picchiata nella sua solitudine.

“Che ne dici, Jimmy, potremmo anche provarci. Sai che bello un figlio con il tuo sguardo e il mio senso dell’umorismo?”, scherzò Sasha sfogliando una rivista e soffermandosi sulla foto di un neonato.

“Si certo, così tra diciott’anni verrà a cercarmi per reclamare il suo posto sul mio divano!”

Poche parole, dette stupidamente, con uno stupido tono di voce in una stupida serata californiana.
E Jess che rimase basito sulla porta a fissare suo padre.
E Jimmy che rimase basito davanti al frigo a fissare suo figlio.

Jess andò lentamente nell’altra stanza e iniziò a mettere insieme le sue cose.

“Dai, che fai, stavamo scherzando...Non intendevo dire...”

Silenzio. I suoi vestiti alla rinfusa nella sacca verde, rabbiosamente.

“E dai, Jess...”

“Domattina riavrai la tua vita”, disse con voce di ghiaccio. Le sue cose con sgarbo nel borsone.

“Jess...andiamo, guardami, in fondo sono tuo p...”

“Non dirla neanche quella parola. Domattina riavrai la tua vita, divano compreso. Non ho bisogno di te”, disse voltandosi di scatto. Nella voce pietre, sul volto il gelo.


Jess bevve un sorso di caffè, la delusione gli bruciava in gola. Prese la sua sacca e se ne andò, dall’unico padre che, seppure per poco, aveva mai realmente avuto: zio Luke.



Rory parcheggiò davanti al locale, aveva chiamato sua madre appena partita e si erano date appuntamento lì. Entrò in fretta, vedendola già lì seduta al solito tavolino. Un abbraccio, un bacio, un altro abbraccio, due tazze giganti di caffè Luke e tre ciambelle, grazie!
Si sedettero l’una in fronte all’altra.

“Avanti, parla. Che ti succede?”

Ma a Rory non bastò il fiato per rispondere, quando si voltò e vide la donna che le stava servendo.
Un tuffo al cuore, il respiro che le inciampa nel petto.
La donna le tese la mano e sorrise in un modo che le fece un male incredibile.

“Ciao! Io sono Liz”

“...la mamma di Jess...”, disse Rory in un soffio.

Rory abbassò lo sguardo, fissando la sua tazza. Avrebbe voluto affogarcisi in quel caffè. Avevano gli stessi occhi.
Si, perchè la vita sa essere anche questo, a volte: due occhi che tornano, un istante che si ripete, un papà che non esiste, un amore che spaventa, un sogno, lettere silenziose in una sacca verde, vestiti gettati con rabbia, un caffè dolce-amaro, una gatta arruffata che ti salta al volto, una torta in faccia in un fil muto, un castello di carte soffiato via dal vento...e tu che vai avanti, malgrado tutto.
Se ne accorsero subito, quel giorno, Rory e Jess: non era finita.


Edited by mely's LC - 2/2/2004, 09:49
 
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mely's LC
view post Posted on 15/2/2004, 18:47




Capitolo 5


- CRESCERE FA PAURA -



Lo videro in molti, quel pomeriggio, attraversare la città con una mano in tasca e il borsone di tela verde sulla spalla. Aveva lo sguardo preoccupato, serio, gli occhi bassi ad evitare mille altri occhi pungenti che, lo sapeva benissimo, non aspettavano altro che sbattergli in faccia tutto il loro disprezzo e disappunto. Non era più il benvenuto, non lo era mai stato a dire il vero...Scosse la testa al ricordo di quanto poco gli importasse, allora, di quel buco di paese, e di quanto invece adesso fosse l’unica sua possibilità di rimettersi in piedi.
Ci furono un paio di brusche frenate e una pila di cassette di frutta crollata davanti alla vetrina del supermarket, mentre con passo svelto raggiuneva la piazza, oltrepassava il gazebo, per poi fermarsi di colpo alla vista del Caffè di Luke al di là della strada.
Appoggiò la sacca sul marciapiede, sospirò profondamente e senza togliere lo sguardo dal locale, si accese una sigaretta. Era arrivato. Era tornato.
Ci fu chi giurò di averlo visto rimanere così, come sospeso nell’incertezza, molto a lungo. Se ne stava lì, con i pensieri incollati da un misto di paura ed imbarazzo, le mani sprofondate nervosamente nelle tasche dei pantaloni, a guardare suo zio attraverso il vetro. Non riusciva a trovare il coraggio di muovere un passo; d’altronde era sempre stato bravo ad andarsene, ma era la prima volta che tornava ed era tutta un’altra cosa. Crescere faceva decisamente paura...


Quando spinse la porta del locale, Luke era girato di spalle, impegnato nell’ennesima discussione con Taylor mentre puliva il filtro della macchina per il caffè.

“Così non contribuisci certo a migliorare l’estetica della città, Luke. Ci farai sprofondare nel degrado!”

“ Andiamo, smettila, tanto non mi convincerai! Puoi insistere quanto vuoi: io non metterò un’insegna al neon! ”

Il tintinnio del campanellino sottolineò il suo ingresso e fece sembrare ancora più denso il silenzio che seguì. Taylor sgranò gli occhi, la bocca aperta ad aspettare un pezzetto di torta che era rimasto fermo a mezz’aria. Luke si voltò, sorpreso per la facilità con cui era riuscito a zittirlo.

“Vedo che ti sei arreso finalm...”, le parole gli si troncarono di colpo.

“...Jess...” disse appoggiando lo straccio sul bancone, serio, tremendamente serio.

“Luke”, fu tutto quello che riuscì a dire, sentendo la sua proverbiale faccia tosta crollare di fronte al modo in cui suo zio lo stava guardando.

“FUORI! SUBITO!”

“Luke...aspetta...”, stavolta la voce usciva a stento.

“Fuori tutti, il locale chiude!”

Luke spinse fuori i clienti, gli ci volle un pò a convincere Taylor che no, non era il caso di chiamare la polizia, poi chiuse la porta a chiave e lo squadrò dalla testa ai piedi. Jess era ancora lì, in piedi in mezzo alla stanza, non aveva più detto una parola.

“Che diavolo ci fai qui?”

Jess abbassò gli occhi.

“Avanti, che succede? No, aspetta, lasciami indovinare: tu e Jimmy avete rapinato una banca e siete ricercati in tutta la California? C’è un’orda inferocita di ragazze sedotte e abbandonate che vi danno la caccia? Oppure, aspetta, non ci sono più parenti idioti da spennare e avete deciso di ricominciare il giro dall’inizio, in nome dei vecchi tempi? Sentiamo, da quali casini dovrei salvarti stavolta?”

“Sono venuto da solo, Luke.”

Aveva una gran voglia di prenderlo a schiaffi, suo nipote, ma a vederlo lì, così, senza sarcasmo, senza parole, senza nemmeno il coraggio di alzare gli occhi da terra, in piedi in mezzo alla stanza con il suo borsone ancora in spalla, non ebbe la forza di fare altro se non sospirare profondamente e appoggiarsi le mani sui fianchi

“Forza, siediti. Dimmi che sta succedendo”, aggiunse morbidamente.

Jess si mise al bancone, tamburellando nervosamente con le dita.

“Jimmy non era come credevo. Non mi ha mai voluto realmente...”

“...e così hai pensato bene di tornare da quel vecchio scemo di tuo zio, eh?”

“No...”

“Non vorresti tornare?”

“No”

“Ah, no?

“Si... Accidenti, voglio tornare qui, Luke, ma non dirlo come se fossi un ragazzino che cerca la via più semplice!”

“Ah, no? E come dovrei dirlo allora, sentiamo!”, tuonò Luke e con uno scatto nervoso incrociò le braccia sul petto, con forza. Non si era mai sentito tanto arrabbiato e preso in giro come in quel momento. Era stufo di essere l’ultima spiaggia, l’ancora di salvezza della sua famiglia, di essere quello buono, quello che alla fine c’era sempre per tutti. Chi c’era mai stato per lui?
Jess esitò un attimo, strinse le mascelle, il pugno, poi si alzò di nuovo e lasciò che le parole finalmente straripassero. Ora era lui ad alzare la voce.

“...prova...prova come se fossi uno che non ha più un buco dove andare, uno che sta scivolando ed ha una paura fottuta di non avere più nessuno che possa o voglia tendergli una mano...prova come se ti stessi chiedendo aiuto, Luke, perchè ho 19 anni, non riesco a fare altro che incasinare la mia vita e quella di chiunque abbia la sfortuna di incontrarmi, ho attraversato un continente in autobus, mi sono fatto cacciare da ogni membro della mia cosiddetta famiglia che ho conosciuto, oltre che da due scuole e un intero paese, e sono stanco, davvero, zio Luke, sono stanco di sentirmi così, di essere solo contro tutti, di aver paura delle persone, di sentirmi un fallimento completo, di sentirmi in colpa per aver deluso le uniche due persone che per la prima volta in tutta la mia vita si erano aspettate qualcosa di buono da me...non ho retto, non ce l’ho fatta, ok? Forse non sono poi così tosto, menefreghista e disinvolto come ho sempre cercato di farvi credere. Forse da solo non ce la faccio! Forse ho molto più bisogno di aiuto di quanto abbia mai immaginato! Forse non voglio finire per alzarmi un giorno e rendermi conto di essere come mio padre o mia madre! Forse voglio alzarmi domani e pensare che posso essere come te, almeno un pò! E se ti rendi conto anche solo lontanamente di quanto sia difficile per me stare di nuovo qui davanti a te e reggere il tuo sguardo, dirti che mi dispiace, che avevi ragione su tutto, sulla scuola, su mio padre, su quanto abbia bisogno di aprirmi con qualcuno, insomma... senti... non lo so cosa diavolo c’è che non va in me, lascia stare, è stata una pessima idea tornare...”

Si chinò frettolosamente, raccolse la sua borsa e fece per andarsene.

“Ti dirò le stesse parole che ho detto a lei: và di sopra, c’è un letto vuoto e del posto nell’armadio. Decidi cosa vuoi fare, intanto prendi un grembiule e aiutami: c’è del lavoro da fare qui.
...e stai alla larga da lei.”

Jess borbottò un grazie imbarazzato e si diresse lentamente verso le scale, poi si voltò:

“A chi ti riferivi prima?”

“ A una delle due persone di cui parlavi: Rory.”

“Prima ancora”

Luke esitò un attimo prima di rispondere.

“ Tua madre è qui, Jess.”

Scosse la testa, le labbra disegnarono un sorriso amaro e frettoloso, mentre per la seconda volta, quel giorno, si trovò faccia a faccia con la consapevolezza che crescere faceva proprio paura.

“ Bene. Perfetto. Proprio una bella idea tornare...” e sparì di sopra.









 
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view post Posted on 17/2/2004, 18:55




- UNA STRANA NOTTE D’INVERNO -



Lorelai si alzo di scatto quasi inciampando nel suo stesso pigiama. Non aveva la più pallida idea di che ore fossero, nè di dove fosse finito il telefono e dovette arrendersi, aprire entrambi gli occhi, togliersi i capelli dal viso e decidersi a cercare la cornetta.
Nonostante il basso livello di caffeina e il brusco risveglio in piena notte, riuscì a riconoscere la voce di Luke e il sonno le passò definitivamente quando sentì pronunciare le parole “Jess” e “Stars Hollow” nella stessa frase.

“Cooosaa??? Stai scherzando, vero? Vero??? Luke!!! ...Accidenti...Si...No, non preoccuparti, hai fatto bene ad avvertirmi...Si, credo anch’io sia meglio fare come dici...Ok, allora. Buonanotte anche a te...”

Lasciò cadere il telefono sul letto disfatto scuotendo la testa. Scese le scale al buio, attraversò il salotto, e si avvicinò alla stanza di sua figlia. Attenta a non fare rumore, entrò chiudendosi la porta alle spalle e si sedette accanto a lei sul letto. Era così tranquilla, con le coperte che le scoprivano le spalle e un libro ancora aperto tra le mani. Era così serena, persa in chissà quali sogni, la sua Rory.
Le accarezzò la testa sorridendo, poi si guardò intorno.
Le mensole riuscivano appena a sostenere tutti quei libri ammucchiati nel corso dei suoi 18 anni, mentre altri ancora se ne stavano uno sopra l’altro come torri di parole sulla scrivania, insieme ad alcune foto, quaderni e matite. Le pareti erano coperte di poster di paesi lontani e scrittrici del passato. Vicino al letto, lo stereo si nascondeva dietro a una pila di cd in bilico sul comodino. Sembravano saldi, immobili, definitivamente in equilibrio, ma Lorelai riuscì quasi a percepire la tensione con cui si aggrappavano al legno mentre con tutte le loro forze cercavano disperatamente di mantenere quella sicurezza apparente, sapendo che sarebbe bastato un leggero tremolìo della voce, una vibrazione dell’aria, per farli sussultare, traballare e infine crollare rovinosamente a terra. Esattamente come avrebbe sussultato e traballato sua figlia, l’indomani, sentendo di nuovo quel nome, cercando disperatamente di non darlo a vedere.
Le si stese accanto, abbracciandola, e si addormentò con la dolorosa consapevolezza che non avrebbe potuto fare niente per evitarlo.

---

Strano. Stranissimo. Innanzi tutto si era svegliata sentendola canticchiare in cucina, il che voleva dire che sua madre era già in piedi di buon’ora e lei non aveva dovuto trascinarla fuori dal letto minacciando di tappezzare la città con la foto che le aveva scattato mentre dormiva a bocca aperta. Poi, quando uscì dalla sua stanza e vide il caffè fumante nelle tazze e sua madre che le sorrideva mentre metteva le frittelle nei piattini, ebbe la conferma dei suoi sospetti: era successo qualcosa di grosso.

“...sorpresa!!!”

“Allora, quanto è grave?”

“Come?”

“Andiamo, tu non prepari la colazione!”

“Su, assaggia!”, disse sorridendo e spingendola sulla sedia.

Era peggio di quanto pensasse: la colazione era squisita e sua madre le stava indubbiamente nascondendo qualcosa.

“Mamma, l’hai presa da Luke! Avanti, che succede??”

“Non l’ho presa!”

“Mamma!”

“beh...è...è venuta da sola!”

“Mamma!!!”

“Ok, va bene. L’ha portata Luke. Volevo prepararti prima che lo vedessi lì...”

“Prepararmi prima di vedere Luke?”

“Prepararti prima di vedere Jess...”

Rory deglutì per cacciare via quel nodo che le si era stretto in gola, prese una frittella e in tono distaccato disse:

“Ah. Beh, dovresti saperlo che l’ho superata.”

Nella stanza accanto una pila di cd in bilico sul comodino crollò a terra, mentre Rory cercava con tutte le sue forze di essere credibile.

---

No. Stavolta non ci sarebbe cascata. Non gli avrebbe permesso di ferirla di nuovo. E non sarebbe nemmeno scappata. Lo avrebbe affrontato e avrebbe finalmente chiuso con quel dolore assurdo e con quei ricordi che la tormentavano. Avrebbe chiuso quel capitolo della sua vita una volta per tutte.
Era assolutamente decisa, sicura di potercela fare, mentre in realtà non riusciva nemmeno a concentrarsi sul film che stava guardando da Lane, quella sera. Decise di tornare a casa, aveva bisogno di stare un pò da sola e fare due passi.

Faceva freddo, si stava alzando il vento e la notte odorava di pioggia. Rory guardò le nuvole coprire la luna, si strinse nel cappotto e affrettò il passo. Non aveva voglia di andare subito a casa, c’era qualcosa di affascinante e misterioso nel momento che precede un temporale di notte, la faceva rabbrividire, le piaceva quasi. Si diresse verso il gazebo e si sedette su una panchina. Stava proprio per piovere.
Era lì già da un pò, assorta nei suoi pensieri, quando sentì dei passi raggiungerla e poi la sua voce.

“Ehi...”

Chiuse gli occhi un attimo, quasi a raccogliere le forze. Era lui.
Rory si voltò senza dire una parola, poi si alzò mentre Jess si avvicinava.
Trascorsero attimi di silenzio assordante, poi lui parlò.

“Senti, volevo dirti che m...”

“Non occorre. Non serve che tu dica niente. E’ passata, è finita, e basta. Non ho bisogno che ti sforzi di trovare delle scuse. Sto bene, sai? Sto bene. Quindi non sentirti obbligato a parlarmi. Non parlarmi affatto. Anzi, non avvicinarti nemmeno. Ciao”

Parlò tutto d’un fiato, con una freddezza che si stupì lei stessa di riuscire ad ostentare, poi si voltò per andarsene. Jess le prese un braccio, fermandola. Rimase a guardarla tremare, per il freddo - pensò lui - , per la sua mano che la teneva – sapeva lei - .

Eccolo lì, vicino a lei, a guardarla di nuovo in quel modo.
Sentì di nuovo quel maledetto nodo in gola, cercò ovunque la freddezza di poco prima, cercò parole da dire, credette anche di averle trovate, ma lui le catturò prima ancora che riuscisse a pronunciarle.
Eccolo lì, stretto a lei, a baciarla di nuovo in quel modo.
Il respiro che si blocca, aria pressata di colpo nel petto, soffoca, fa male, le parole che le si strozzano in gola, che le muoiono sulle labbra, lacrime, lacrime che bruciano, graffiano, lacrime che le urlano dentro, lacrime che non lascerà scorrere davanti a lui, e il cuore, il cuore che batte forte, sempre più forte, il cuore che schizza e le frusta l’anima...Accidenti a te, maledizione! Accidenti a te che mi fai questo! Accidenti a te che mi fai sentire così, di nuovo, ancora come allora!
Poi il fuoco sulle guance, le mascelle strette a mordere quella gran voglia di piangere ed urlare, le mani che si serrano a pugno, le gambe che tremano e via, correre, via da lì, scappare lontano da tutto quel dolore, da tutta quella rabbia, da tutto quell’amore. Via. Solo correre, correre, correre, un piede dopo l’altro, con forza, asfalto, scalini, erba, vento, vento che le punge la faccia, vento che le arruffa i capelli, vento portami via, portami lontano, porta via lontano queste mie emozioni assurde, porta via il suo odore, porta via la sua voce che mi sta chiamando, e poi pioggia, pioggia che le confonde le lacrime, lacrime che le feriscono il volto, lacrime come pioggia, pioggia come lacrime, lei e la notte che piangono insieme, nascondimi, notte, nascondimi, non farmi trovare, notte, e fango, fango sulle scarpe, fango sull’orlo dei jeans mentre corre nel giardino dell’albergo di mamma, fango e pioggia e vento e notte e lacrime e amore e rabbia, e poi la mano sul legno della porta, freddo, umido, ruvido, la porta del vecchio capanno che si apre e si chiude cigolando, e finalmente un rifugio, un vecchio materasso, l’odore di quando era bambina, di quando c’era il temporale e le braccia di mamma la stringevano forte. Poi solo lei e il suo dolore, la sua rabbia, il suo amore. Poi solo lei, le sue lacrime e i suoi pugni chiusi.
Aveva giurato a se stessa che sarebbe andata avanti, che non avrebbe pianto per lui, ma ora, col viso sprofondato nell’abbraccio di una strana notte d’inverno, quella promessa sembrava lontana e polverosa come non mai.




 
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mely's LC
view post Posted on 3/6/2004, 22:41




- NOI -

Ci sono momenti in cui ti muovi indipendentemene dalla tua volontà, una specie di istinto primordiale che ti costringe verso la tua mèta senza che tu possa evitarlo.
Ci sono cose che accadono così, senza che tu possa attribuirgli un senso-motivo. Accadono e basta, perchè è così che deve essere e ogni forza contraria finisce per essere annullata.

Jess si fermò un attimo di fronte al capanno, le emozioni impastate di pioggia gli facevano battere il cuore con un affanno sproporzionato e come in trance, vide la sua mano appoggiarsi alla porta, sentì i muscoli del braccio contrarsi e poi la spinta sul ruvido del legno.

Lei era lì.

Cercò il blu dei suoi occhi nel buio della stanza. Li incontrò smarriti tra le lacrime. Naufraghi in cerca di salvezza. Naufraghi aggrappati al bordo della propria tristezza. Occhi blu tristi di pianto che tremano nel buio. Occhi blu illuminati dal pianto che si aggrappano ai suoi. Occhi blu che si arrendono, finalmente, e si chiudono stretti stretti sul suo petto, mentre lui l’abbraccia forte.
Non una parola.
Ha forse bisogno di parole la perfezione di un attimo d’eterno?
Non una parola.
L’incanto del sapersi amati non può essere detto.
Occhi negli occhi. Occhi che da soli bastano per capire. Occhi che amano. Gli occhi di lei. Gli occhi di lui. Occhi che spiegano. Occhi che perdonano. Occhi che amano.

-Rory...
-...no...non dire nulla...
-...Rory...
-...shhh...

Non una parola.
Perchè non serve dirsi niente ora che respiro il tuo respiro, Jess.
Non una parola adesso.
Perchè lascerò che a parlartia sia la mia pelle, Rory.
Perchè domani, poi, ti farò dono di tutte le parole che non ti ho mai detto. Ma non ora. No. Ora no. Ora sono solo i tuoi occhi blu nei miei.

Le lacrime le imperlavano lo sguardo struggendosi nel folto delle ciglia mentre lui la stringeva a sè.
Il profilo dei loro corpi emergeva dalla penombra mentre il suo respiro leggero le sollevava il petto acerbo. Intorno a loro il silenzio, un silenzio morbido, profondo, senza tempo.
Jess le spostò una ciocca di capelli dal viso e le sorrise ancora una volta. Con gli occhi ripercorse le linee del suo corpo, cercò quel nasino adorabile, quella bocca tenera, quelle mani...quelle mani...
Si sarebbero amati così, tra la polvere di un vecchio materasso in un vecchio capanno, sottovoce. Si sarebbero amati di un amore immenso.
Si sarebbe risvegliato lì, Jess, poche ore dopo, giusto in tempo per vederla alzarsi e raccogliere in fretta gli abiti sparsi a terra. Giusto in tempo per vederla correre via.

Non una parola.



(Scusate se ci ho messo tanto e se dopo tanto attendere vi ho rifilato sto capitolino striminzito, ma davvero non ho più molto tempo libero! Però non vi abbandono...
Uno SCUSA enorme a JOMARCH, ho fatto un gran casino con le registrazioni e non mi resta che sperare nelle prossime repliche...mi perdoni vero? Un bacione a tutte e...COMMENTATE sennò non mi diverto!! Pamela)


 
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mely's LC
view post Posted on 11/6/2004, 13:16




Capitolo 8


- SLEEPING WITH GHOSTS -



Le mani le tremavano mentre cercava di infilare le chiavi nella porta di casa. Continuava a piovere; una notte folle, una notte in cui aveva visto crollare ogni sua difesa e aveva lasciato che i suoi senimenti per lui straripassero con tutto il loro carico di dolore e forza e amore; una notte assurda in cui le era bastato sentire di nuovo il suo odore, il soffio lieve del suo respiro per arrendersi. Quella indimenticabile e folle e assurda notte in cui Jess era sato suo come mai prima...
Inciampò, entrando al buio, si chiuse la porta alle spalle e proseguì a tentoni fino alla sua stanza.
No, no, no, no, no... No, non doveva accadere più. Mai più. Non sarebbe accaduto mai più. No, Jess, no. No.
Jess. Il mio Jess.
No No NO
Si tolse gli abiti bagnati, si infilò il pigiama e sprofondò nel letto.
Impossibile dormire quella notte.
Impossibile dormire quando il ricordo delle sue mani su di te ti piove addosso con lo stesso fragore del temporale fuori.
Impossibile dormire se appena chiudi gli occhi il suo profilo torna ad avvolgerti ancora e ancora e ancora.
Impossibile dormire se l’eco delle sue parole sussurrate al tuo orecchio non se ne vuole andare.
Impossibile dormire quella notte.
Impossibile.
Jess riempiva ogni fibra del suo essere.
Rory sprofondò il viso nel cuscino, ma nemmeno così, nemmeno tenendo gli occhi chiusi stretti stretti fino a farsi male riuscì a far scomparire il ricordo di quella notte.
Jess riempiva l’aria della sua stanza, il suo stesso respiro.
Si alzò, salì le scale al buio e scivolò piano nel letto di sua madre, stringendosi a lei come quando era piccola.
Impossibile dormire.



“...mmmpfhh...hey...che hai?”, stropicciò Lorelai nel sonno.

“Ho fatto un brutto sogno...posso dormire con te?”

Lorelai borbottò un “ma certo” facendola accoccolare sulla sua spalla. Trasalì al contatto con i suoi capelli ancora umidi e accese la luce.
Rory aveva il volto rigato di lacrime.

“Rory ma cosa...?”

“Ho fatto due passi venendo via da casa di Lane...si è messo a piovere...non riesco a dormire...”

“Ma stai piangendo!”

“Mamma ti prego, non ora. Sto bene. Va tutto bene. Fammi solo dormire con te...”

Lorelai le passò una mano sulle guance asciugandole le lacrime e le baciò la fronte.
Mentre spengeva la luce notò l’ora sul display della radio-sveglia: le cinque meno un quarto.
Una passeggiata a quell’ora di notte, con il temporale, e il sale di quelle lacrime ancora vivo sulle sue dita...e Jess Mariano che era tornato in città...
Impossibile dormire.



***

Hush
It's okay
Dry your eyes
Dry your eyes
Soulmate dry your eyes
Dry your eyes
Soulmate dry your eyes
Cause soulmates never die

Soulmates never die
Never die
Soulmates never die
Never die...
Soulmates never die
Soulmates never die
Soulmates never die
Soulmates never die

***


Si passò una mano tra i capelli e lanciò il libro contro la parete della sua stanza, tanto stava solo leggendo e rileggendo lo stesso rigo senza avere la più pallida idea di cosa ci fosse scritto.
Jess non riusciva a credere nè a capire cosa fosse sucesso esattamente. Un attimo prima lei era lì, tra le sue braccia, era lì a dirgli di amarlo, era fuoco sulla sua pelle e adesso, all’improvviso, le sfuggiva come sabbia tra le dita.
Era uscita in fretta, senza dire niente, senza nemmeno guardarlo in viso.
L’aveva chiamata, ma lei si era messa a correre e in un attimo non l’aveva vista più.
Rory. La sua Rory. Perchè era sua, lo sapeva, lo aveva sentito quella notte più che mai. Si appartenevano. E lo aveva sentito pure lei, ne era certo, per questo se ne era andata.
Amarlo doveva far male e paura...
Spense la sigaretta che aveva acceso con un gesto automatico e si buttò sul letto.
Cercò il suo volto nel buio.
Cercò il suo odore dentro di sè.
Cercò la sensazione di completezza di un suo abbraccio.
Trovò solo il gelo e la profonda solitudine del timore che quella notte fosse stato un addio...
Trovò solo un sapore amaro che gli riempiva il cuore e si confondeva col ricordo dei suoi baci.
Impossibile dormire.


***

Come on falling star I refuse to let you die
Cos it's wrong and i've been waiting far too long
It's wrong
I've been waiting far too long
For you to be...be...be...be...be mine
For you to be mine
Be mine
For you to be mine
And it's wrong i've been waiting far too long
It's wrong
I've been waiting far too long
For you to be...be...be...be...be

All the centrefolds that you can't afford
Have long since waved their last goodbyes
All the centrefolds that you can't afford
You've long sinced faded from their eyes
So be...be mine
So be...be mine

***


(Titolo e brani in inglese sono tratti da due bellissime canzone dei Placebo.)
Un bacione a tutte, fatevi sentire!!!


 
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mely's LC
view post Posted on 4/7/2004, 17:06




- TEMPESTE -


Dominarsi. Inibire. Nascondere.
Fingere che non fosse successo niente.
Fingere che niente fosse cambiato in lei.


Erano arrivate da Luke piuttosto tardi, Rory aveva cercato di evitarlo senza però dare troppo nell’occhio, cercando di rimandare il più possibile l’inevitabile momento in cui sua madre le avrebbe chiesto spiegazioni per la notte appena trascorsa. Finse di dormire quando Lorelai si svegliò, aspettò che scendesse in soggiorno e corse ad infilarsi sotto la doccia, sperando di prendere tempo...ma non ebbe fortuna. Non aveva fatto i conti con la caparbietà di sua madre, che combinata con l’astinenza da caffeina poteva diventare una miscela esplosiva. Fu così che, dopo averla sentita urlare qualcosa su come l’avrebbe trascinata via di peso se non si fosse sbrigata, se la ritrovò in bagno armata di accappatoio, phon e vestiti, e in meno di dieci minuti la stava già spingendo lungo la strada per il locale.

Entrarono quasi correndo e quasi correndo Lorelai raggiunse la brocca di caffè caldo e la portò al tavolo dove Rory si era seduta. Il tavolo più nascosto, laterale, vicino alla finestra così poteva guardare fuori senza rendere troppo evidente il suo tormento.
Il locale era quasi vuoto, sui tavoli erano rimaste le tazze e i piatti delle colazioni appena servite e Luke era tutto indaffarato a cercare carta e penna nel caos che imperava sul bancone, mentre con la cornetta tra la spalla e l’orecchio tentava di memorizzare una ordinazione senza far cadere la pila di piatti sporchi che teneva con una mano. Si voltò per appoggiarli su un tavolo ma Liz uscì improvvisamente dalla cucina e lui si ritrovò a sbattere contro la porta aperta.

“Accidenti...No! Non dicevo a lei..Ma co...? Hei!!!...Ha riattaccato...”

“Lukie Lukie...stai invecchiando...mi sa tanto che hai bisogno di una mano qui!”, scherzò Liz divertita.

“Molto divertente. MOLTO divertente. Davvero esilarante! Soprattutto la parte in cui io devo fare tre cose contemporaneamente mentre mia sorella si eclissa in cucina a preparare intrugli che nessuno osa ordinare e mio nipote se ne sta sepolto nel letto!”



Recitare. Reprimere. Controllarsi.
Ingoiare quella voglia di corrergli incontro e stringerlo forte, ingoiare quello stupido stupidissimo cuore che le rimbalzava in gola, ingoiare quel nodo che le si strinse in petto quando lo vide entrare, appena sceso dalle scale che portavano al piano superiore.


Entrò a testa bassa, le mani sprofondate nelle tasche come a cercare di contenersi, di non perdersi nel mare in tempesta che gli urlava dentro, come a creare un fronte compatto che cozzasse con le intemperie della sua giovane arruffata vita. Borbottò un “eccomi” a mezza voce, lanciò un paio di occhiate oblique sufficienti a vederla lì nell’angolo e a sentirsi morire dentro. La vide sorseggiare il suo caffè, spendere uno sguardo muto verso di lui e tornare a guardare oltre il vetro.
Scuro in volto, le spalle curve, se ne andò fuori senza dire nulla.

Luke seguì i suoi movimenti incredulo e lo rincorse sulla soglia del locale, lo afferrò per una spalla costringendolo a voltarsi.

“Hei! Cosa diavolo pensi di fare, ragazzino! Se non sbaglio avevamo un accordo io e te, e invece sono bastati tre giorni per farti riprendere il vecchio stile! Dici che vai a fare due passi, torni alle cinque del mattino, non una parola, niente, dormi fino a tardi e poi invece di dare una mano a me e tua madre, te ne vai così?”

“E’ un Mariano, che ti aspettavi di diverso da lui?”, intervenne Liz mentre con lo straccio puliva un tavolo, “Credevi che fosse cambiato? Sei troppo ingenuo, fratellino. Apri gli occhi, Luke, Jess è come suo padre: inaffidabile e opportunista.”

Rory era rimasta immobile, pietrificata.
Dominarsi, reprimersi, fingere...non era più possibile.
Davanti ad uno sbigottito Luke e ad una stordita Lorelai, si alzò di scatto e le parole le uscirono esplodendo.

“PIANTALA SUBITO LIZ!”

La donna rise, scosse la testa e incrociò le braccia sul petto.

“Ha fregato anche te, eh, piccolina? Non essere stupida...ti mollerà ancora, ti farà soffrire, come con le altre prima di te. Scommetto che non ti ha mai detto nulla di New York, eh?”

Jess vide i suoi occhi inumidirsi. Dentro fu come se un’onda impazzita lo avesse risucchiato in un vortice cieco. Guardò gelido sua madre e con uno strattone si liberò dalla presa di Luke.

Il rumore della porta sbattuta avvolse la sua figura che si allontanava sul marciapiede, mentre Rory cercava di raggiungerlo.

***

Crawling in my skin
These wounds / they will not heal
Fear is how I fall
Confusing what is real

There's something inside me that pulls beneath the surface
Consuming / confusing
This lack of self control I fear is never ending
Controlling / I can't seem

To find myself again
My walls are closing in
[Without a sense of confidence / I'm convinced
there's just too much pressure to take]
I've felt this way before
So insecure

Discomfort, endlessly has pulled itself upon me
Distracting / reacting
Against my will I stand beside my own reflection
It's haunting how I can't seem…

To find myself again
My walls are closing in
[Without a sense of confidence / I'm convinced
there's just too much pressure to take]
I've felt this way before
So insecure


***


(Scusate se ci metto un pò a postare ma ho davvero poco tempo per scrivere... Però prometto di non smettere...anche perchè ho in mente di allacciarmi ad alcune vicende della quarta serie e incasinare un pò Dean, visto che lo trovo piuttosto urticante...Un bacio, Pam
Ah, il testo è di Crawling dei Linkin Park)

 
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mely's LC
view post Posted on 17/7/2004, 22:53






- VENTO-



-Hei Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finchè non arriveremo.
-Per andare dove, amico?
-Non lo so, ma dobbiamo andare

( Jack Kerouac, “On the road”)






Il bacio del vento sulla fronte.
Il suo bacio come vento sulla sua fronte.
Un soffio di vento, dalla finestra aperta, come un bacio triste nella notte.
Poi nient’altro che lei, nient’altro che il lento scorrere di una lacrima solitaria a fare da eco a quell’addio, mentre piano apriva gli occhi nell’oscurità.

“Ti amo anch’io, Jess...”

Dietro di lui, soltanto il vento.




L’aveva cercato ovunque, quella mattina dopo che Liz lo aveva annientato con tre stupide parole. Lo aveva visto incassare in silenzio, lo sguardo ferito, dolente, ma solo per un attimo, solo il lampo di smarrimento che ti dà un colpo inatteso, quell’attimo di sorpresa in cui barcolli sotto il peso della tua vulnerabilità, per poi rimetterti subito in piedi e difenderti in qualche modo.
Lo aveva visto stringere nervosamente le mascelle, le labbra serrate, mentre lo sguardo si faceva di colpo gelido, duro, tagliente.
Lo aveva visto urlare di rabbia e dolore nel silenzio affilato col quale si voltò e uscì sbattendo la porta.
Avrebbe voluto proteggerlo, difenderlo, cancellare dalla sua storia tutte le volte in cui, ora lo sapeva, si era sentito così, tutte le volte in cui sua madre gli aveva rivolto parole come grandine di pietre.
Avrebbe voluto trovarlo, stringersi a lui, dirgli che sua madre aveva torto in tutto.
Avrebbe voluto.
Avrebbe disperatamente voluto fidarsi di lui, non avere così tanta paura che Liz potesse avere ragione.

Lo aveva cercato a lungo, per poi scorgere la sua figura di spalle seduta all’ombra di un vecchio albero in riva al lago.

“Jess!”, chiamò correndo verso di lui, il cuore in gola.

Lui si alzò con movimenti precisi, lenti, gravi.
Erano lì, l’uno di fronte all’altro, in silenzio.
Silenzio.

“...non ascoltarla, Jess...”, mormorò Rory.

Chiuse gli occhi, scosse la testa, “Basta, Rory, basta, lo sai benissimo, lo sappiamo benissimo entrambi che in fondo ha ragione lei!”

“Jess...”

La prese per le spalle, con forza, con dolore, con rabbia, “Allora dimmelo! Guardami negli occhi e dimmi che non è così! Avanti! Dimmelo! Dimmi che ti fidi di me, Rory! Dimmi che non hai paura di me! Dimmelo!”, le gridò.

“Jess...”

Gli bastò il silenzio che seguì.
Gli bastarono le parole che non disse.

“E’ colpa mia”, mormorò lui abbassando lo sguardo. Poi, con movimenti precisi, lenti, gravi, nascose il tremore delle mani nelle tasche dei pantaloni e se ne andò.

***

Ricordo bene il suo sguardo.
Attraversa ancora la mia anima
Come una scia di fuoco nella notte.
Ricordo bene il suo sguardo. Il resto...
Si, il resto è solo una parvenza di vita.

Fumo, sogno, adagiato sulla poltrona.
Mi duole vivere in una situazione di disagio.
Debbono esserci isole verso il sud delle cose
Dove soffrire è qualcosa di più dolce,
dove vivere costa meno al pensiero.

Do asilo dentro di me come ad un nemico che temo d’offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come fosse reale,
che accompagna col piede la melodia delle canzoni che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade srette quando piove.

(Fernando Pessoa, “L’enigma e le maschere – 44 poesie”)


***

Amava la notte. Amava quel suo nasconderlo, quel suo avvolgerlo.
Scelse la notte per andarsene.
Scelse la notte per dirle addio.
Entrò dalla finestra aperta e si sedette piano sul suo letto, attento a non svegliarla. Trascorse lunghi minuti così, a guardarla dormire, persa dietro chissà quali sogni.
Poi le si avvicinò piano e le sfiorò la fronte con un bacio.

Il bacio del vento sulla fronte.
Il suo bacio come vento sulla sua fronte.
Un soffio di vento, dalla finestra aperta, come un bacio triste nella notte.
Poi nient’altro che lei, nient’altro che il lento scorrere di una lacrima solitaria a fare da eco a quell’addio, mentre piano apriva gli occhi nell’oscurità.

“Ti amo anch’io, Jess...”

Dietro di lui, soltanto il vento.

Nella notte le sfumature si rivelano solo a chi ha la sensibilità d’animo di saperle cogliere, lievi e impercettibili come il respiro dell’universo.


***
And now I'm trying to tell you
About my life
And my tongue is twisted
And more dead than alive
And my feelings
They've always been betrayed
And I was born a little damaged man
And look what they made

I said, don't you find
That it's lonely
The corridor
You walk there alone
And life is a game
You've tried
And life is a game
You're tired

Yes
I'm coming down
Your beauty is
A colour surround
Into the half light
Another velvet morning for me

And now I'm trying to tell you
About my life
And my tongue is twisted
And more dead than alive
And my feelings
My feelings, they've been betrayed
And I was born a little damaged man
And look what they made

He said, don't you find
That it's lonely
The corridor
You walk there alone
And life is a game
You've tried
And life is a game
You're tired
And life is a game
You've tried

(the Verve, “Velvet Morning”)


Edited by *Mèli* - 18/7/2004, 00:44
 
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